Maria Giovanna Delle Donne nasce a Foggia nel 1992, si trasferisce all’età di diciotto anni in Germania per proseguire lo studio della danza classica e contemporanea presso la “Folkwang Universität der Künste”, dove consegue la laurea di primo livello nel 2014 e il master in “Composizione della danza-interpretazione” due anni più tardi. Durante il suo periodo di studi all’estero ha partecipato a diversi progetti ed eventi come ballerina e, talvolta, come coreografa organizzati all’interno dell’Università e non, e ha approfondito la tecnica Joos-Leder e il repertorio Bausch: nel 2014 viene selezionata per partecipare alla Tanz Biennale a Dresda, con l’esecuzione di “Tannhäuser” (Pina Bausch) e per il festival Pina 40 (un progetto in collaborazione con la Juiliard School of Arts-NY) nella ricostruzione della “Serata Stravinsky” eseguendo le coreografie “Cantata” e “Les sacre du printemps”. Ha lavorato con diversi coreografi e compagnie: ha debuttato nel 2015 in Lituania nello spettacolo “Darwintodarwin” di Johannes Wieland, che verrà eseguito in versione completa e parziale in Polonia, Grecia e Italia. È stata selezionata nello stesso anno dalla coreografa siciliana Ester Ambrosino per le produzioni “Romeo und Julia” e “Hercules” eseguiti all’Opernhaus in Erfurt, e dal Wuppertal Tanztheater come ballerina ospite per due stagioni consecutive nello spettacolo “Les sacre du printemps”, calcando diversi palcoscenici internazionali fra i quali Niemes (Francia) e Wellington (Nuova Zelanda). Oltre alle diverse produzioni nel panorama della danza contemporanea, ha continuato a danzare e coreografare per festival ed eventi nel settore commerciale, ha realizzato una coreografia per danza e magia che ha vinto la categoria “grandi illusioni” al FISM 2015 che è stata poi eseguita in diversi teatri internazionali (Shanghai, Macao, Zhuhai, Guangzou, Monaco) e programmi televisivi come “master of magic”, “le plus grand cabaret du monde” e “die erlich Brothers”. Si è classificata prima ai concorsi “Dance Star” - world champion and “world dance movement” con due assoli da lei coreografati, ottenendo la nomina come “talento femminile” più rappresentativo fra cinque categorie nel primo, e un premio in denaro più una borsa di studio per la “Peridance Capezio Center” a New York dal secondo. Nel 2017 è entrata nell’ensamble del Folkwang Tanz Studio lavorando con diversi coreografi ospiti fra cui Reinhild Hoffmann, Henrietta Horn, Micheil Vandevelde, Iker Arrue; dopo due anni e mezzo di permanenza in compagnia, ha successivamente lavorato come freelancer nella produzione di Cristiana Morganti “Another round for five” e per il Wuppertal Tanztheater nelle produzioni “Blaubart” (con repliche anche a Londra presso il Sadler’s Wells) e “Die sieben Todsünden”. Da Gennaio 2021 è parte del “Wuppertal Tanztheater Pina Bausch”.
Gentile Maria Giovanna, innanzitutto felicitazioni per l’ingresso ufficiale al Wuppertal Tanztheater Pina Bausch, quale significato ha per lei questo traguardo?
Grazie mille Signor Olivieri, a dire la verità ho ancora qualche difficoltà nel realizzare ciò che sta succedendo: è avvenuto tutto all’improvviso, inaspettatamente, portando un enorme cambiamento nella mia vita. È stato come un “tuono” in un momento artistico così silenzioso, dove tutto e tutti sono in una costante, apparentemente interminabile, attesa. Con molta onestà mi sento privilegiata, (forse baciata dalla fortuna?) ma sicuramente tanto onorata ed appagata. Per non parlare poi dell’affetto e del supporto ricevuto da amici, parenti e colleghi: vedere quante persone sono state sinceramente felici per me, mi ha lasciato senza parole. Più che un traguardo, l’ingresso al “Tanztheater Wuppertal Pina Bausch” lo definirei un’importantissima tappa del mio percorso artistico, una grande esperienza che sta per iniziare e che spero possa sorprendermi superando ogni mia aspettativa.
Nella sua giovane età e carriera ha già vissuto un periodo particolarmente intenso ed evolutivo nel cosiddetto teatro-danza europeo, ma la sua avventura con l’arte coreutica a che età è iniziata e com’è nata questa passione?
Ho iniziato danza all’età di sette anni, così per caso, come spesso accade: mia madre, insegnante di musica, ha provato ad avvicinarmi da piccola al pianoforte, ma il mio carattere e la mia palese intolleranza alla staticità, hanno tagliato il tutto sul nascere. Da qui l’idea di provare qualcosa di più dinamico: mio cugino frequentava una scuola di danza e decisi di provare; non ne uscii più, diventò la mia seconda casa. Da piccoli è tutto un gioco, che si trattasse di una passione, di quelle con la “P” maiuscola lo capii solo dopo quando le ore in sala diventarono interi pomeriggi, quando i giorni festivi diventarono giorni di stage e di concorsi, quando la notte diventava l’unico momento utile per studiare e, nonostante tutto non mi pesava.
Quali sono i suoi primi ricordi legati alla danza da bambina?
Il fiatone, il viso paonazzo, i muscoli doloranti e tante, tante risate. Credo di aver scelto la danza da bambina non perché “mi permettesse di esprimere al meglio la mia anima”, ma perché potevo letteralmente esplodere: ero piena di energia, amavo la musica in tutti i suoi ritmi, avevo bisogno di scatenarmi fino a sentire i muscoli bruciare. Il tutto reso ancora più bello da un gruppo di compagne piene di talento, voglia di fare e con un grande amore in comune, e un corpo insegnanti a cui devo tutto.
Ricorda il suo primo giorno in sala danza?
No nello specifico. Secondo il racconto di mia madre ero all’inizio molto insicura, perché era una cosa nuova ed entravo già a metà dell’anno accademico. Una volta in sala, credo di essermi ambientata facilmente dato che non ne sono più uscita; la mia insegnante non ricorda la prima lezione in se per sé, ma sempre mi ha raccontato che sin da subito diventai “un’allieva-Jolly”: iniziai a fare di tutto, la mia lezione, quella dei corsi più avanzati, tanto che ormai nessuno faceva più caso alla mia giovane età.
Quali sono stati i primi passi nella formazione e cosa offriva Foggia, la sua città natale, per chi amava la danza?
Ho incominciato con la danza Jazz e Funky; un inizio insolito, ma come ho già detto, prima di tutto veniva il divertimento. Ad otto anni la prima lezione di classico e, a circa dodici, ho iniziato lo studio della danza moderna avvicinandomi alla tecnica Limòn. Pur non essendo Foggia una metropoli, c’erano diverse scuole di danza, e con molti allievi: la danza era un hobby molto diffuso fra i miei coetanei. Nonostante ci fossero cinque, sei scuole sono sempre rimasta nella stessa (Danzàrea) per tutto il mio percorso di studi e a posteriori non posso che esserne felice: ho avuto la fortuna di aver incontrato insegnanti la cui professionalità non mi ha solo fatto godere grandi momenti sul palcoscenico, ma mi ha preparato al lavoro in sala, mi ha educato al rispetto, al sacrificio e alla ricerca con onestà e passione dei propri obiettivi.
In qualche modo la sua carriera professionale a livello internazionale ha preso avvio con lo studio alla “Folkwang Universität der Künste”, come è nata questa scelta e quali sono gli insegnamenti più belli che porta con sé?
Mi sono affidata al consiglio delle mie insegnanti ed ho seguito un po’ le orme di alcune compagne che, prima di me, si erano incamminate in percorsi professionali in Italia e all’Estero; a diciassette/diciotto anni non conoscevo molto, lo ammetto, e in particolare della danza in Europa e del “mondo Bausch”. La scelta di provare l’audizione alla Folkwang fu dettata dagli anni di studio con Giorgia Maddamma, una danzatrice straordinaria, a sua volta ex allieva e successivamente docente nello stesso istituto tedesco: vederla danzare fu amore a prima vista, così decisi di tentare. Provai e passai l’audizione in più scuole/accademie, ognuna con percorsi e visioni completamente differenti, per questo scelsi di pancia: al di là delle emozioni positive che ho provato, che in una situazione di esame sono più uniche che rare, fu l’inspiegabile ed istintivo senso di appartenenza il fattore determinante della mia scelta. Cosa porto con me di questi dieci anni? Tutto. Il bagaglio culturale ed artistico che mi è stato offerto da questo grande Istituto e dalle persone che lo rappresentano mi ha completamente forgiata, ha cambiato il mio modo di vedere, percepire, esprimere ed apprezzare l’arte in ogni sua forma. Un elenco sarebbe riduttivo, ma posso assicurare che gli insegnamenti appresi da quel “mondo nuovo” di allora, ancora li riscopro dietro una scelta, un gesto, un atteggiamento, un indumento, una correzione. “Semplicity, less is more”; forse è l’insegnamento più arduo da mettere in pratica, perché la cosa più difficile è proprio togliersi di dosso stereotipi e ornamenti che crediamo necessari per la definizione di noi stessi. Semplicemente essere ed esserci, in quel momento, in quell’irripetibile istante. Ascoltarsi ed ascoltare.
Nel 2014 ha conseguito la laurea di primo livello ed in seguito il master in “Composizione della danza-interpretazione”. Come si svolgevano le giornate di studio nella celebre istituzione tedesca?
Sicuramente piene ed intense, era quasi impossibile tornare a casa fra una lezione e l’altra; per fortuna la bellezza del campus ha alleviato le attese. Per quanto riguarda il programma del Bachalor, le giornate erano similmente articolate durante il corso dei quattro anni: due classi di tecnica (classica e moderna) la mattina, pausa pranzo e due o più materie pratiche e/o teoriche nel pomeriggio. Per materie pratiche mi riferisco a lezioni di improvvisazione, floor work, flamenco o folclore, Alexander Technique, Gyrokinesis a cui si aggiungevano corsi teorici come Storia della danza, Musica, Kinetografia, anatomia e lingua tedesca. Per i primi due anni il piano di studi era interamente programmato dal corpo insegnanti; gli studenti del terzo e del quarto anno potevano, invece, decidere semestralmente le lezioni pomeridiane da seguire. A questo si aggiunsero progetti, saggi/spettacoli e laboratori di interscambio: la Folkwang è un’Università composta da quattro dipartimenti, ricca di possibilità e capacità; per questo gli allievi vengono continuamente incentivati all’interdisciplinarità. In generale il biennio di perfezionamento in “composizione coreografica-interpretazione” è finalizzato a migliorare le qualità di performer dell’allievo: alle lezioni obbligatorie con la compagnia, il Folkwang Tanzstudio, e a quelle di improvvisazione, ogni allievo può abbinare altre discipline attingendo dai corsi del Bachelor per costruire il suo piano di studi individualizzato. In ogni caso a seconda delle situazioni e dei progetti, si cerca di far esibire gli allievi il più possibile.
Qual è stato il suo primo lavoro coreografico, da cosa si era lasciata ispirare per creare?
Non mi sono cimentata ancora in grandi produzioni, ma mi è capitato sin da piccola di creare coreografie di diversi stili e per progetti, concorsi e festival fra loro dissimili. Il processo dall’ispirazione al prodotto finito, si manifesta e articola sempre in modo differente a seconda del contesto e del luogo, da chi viene danzata la coreografia e per chi, se si ha un messaggio concreto da esprimere o se tutto parte da una curiosità fisica che si desidera esplorare; insomma le variabili sono tante. La difficoltà sta nell’iniziare, specialmente per una super critica come me, infatti amo molto lavorare in gruppo, trovare stimolo e ispirazione nel compagno e, talvolta, scomporre e mescolare il materiale di movimento altrui secondo un mio senso estetico. L’unico elemento che, nella mia piccolissima esperienza sempre mi aiuta a “chiudere il cerchio”, è la musica: se trovo il brano giusto le idee si riordinano, la visione diventa più chiara e di conseguenza anche l’intenzione.
La tecnica Joos-Leder in cosa consiste, per chi non la conoscesse, e come si articola?
Non è una tecnica definita e decodificata, ma è un metodo basato sulla pratica, che studia il movimento attraverso i due principali sistemi di analisi ricercati da Rudolf von Laban: Choreutik e Eukinetik. La prima analizza lo spazio e conferisce al danzatore una maggiore consapevolezza spaziale, chiarezza, pulizia e tridimensionalità delle forme; la seconda studia la dinamica, le qualità espressive del movimento attraverso la relazione forza-tempo-modalità (intesa come parte del corpo in movimento, centro o periferia).
Arriviamo al repertorio di un’icona, quale è stata ed è tuttora, la Bausch: come si svolgevano gli studi sul lavoro di Pina?
Dipendeva un po’ dallo spettacolo, si è fatto uso di supporti audio-visivi e dell’ausilio tecnico di danzatori ed ex-danzatori della compagnia che hanno o avevano già interpretato quella specifica coreografia; sempre con una personale ricerca del “perché” piuttosto che del “come” e una minuziosa attenzione al dettaglio.
Nella sua formazione si è accostata a diverse metodologie, come ha vissuto l’apprendimento di così diversi stili e linguaggi e qual è stato il momento che artisticamente ha sentito più affine al suo temperamento?
L’apprendimento di stili e linguaggi diversi è ciò che mantiene e sempre manterrà viva la mia passione. La curiosità è fondamentale e credo che il corpo, quale strumento espressivo a nostra disposizione, vada scoperto e costantemente messo alla prova. Ho un carattere complesso, con diverse sfaccettature contrastanti fra loro, per questo amo parecchie cose; ad eccezione delle etichette: ciò che facciamo può definire ciò che siamo, ma niente è immutabile. Da piccola credevo che il mio futuro sarebbe stato nel “commerciale” o nel musical, perché ho spesso interpretato ruoli forti, esplosivi e sensuali; poi sono entrata in contatto con un ambiente completamente diverso e ho scoperto tanti altri colori che egualmente mi rappresentano. Amo far parte di una compagnia e/o di un gruppo, ho bisogno della condivisione specialmente in sala, così come amo la varietà di luoghi, persone, situazioni con il quale un free lancer si deve confrontare volta per volta. Lavorare nel campo della magia, non tanto come interprete quanto come coreografa e curatrice della messa in scena del pezzo, passando dal circo alla tv, coordinando ma allo stesso “rappresentando” il gruppo, è stata una delle esperienze in cui ho potuto spaziare utilizzando il 100% del mio potenziale. Sono stati anni di gavetta importanti che mi hanno responsabilizzato e che ricordo sempre con un gran sorriso.
Quando si parla di danza nel Novecento uno tra i primi nomi che risaltano è assolutamente quello di Pina Bausch. Ha avuto il piacere di conoscerla personalmente?
Purtroppo no poiché sono arrivata alla Folkwang un anno dopo la sua scomparsa, ma credo di averla conosciuta: era lì, in ogni angolo di sala, in ogni aneddoto, insegnamento, correzione. Specialmente i primi anni si poteva percepire la sua presenza ancora molto forte; mi sono sempre chiesta quanto dovesse essere stata carismatica come artista e donna per riuscire a far echeggiare la sua energia in quel modo. Ricordo una sensazione di sospensione, non di attesa, ma di sospensione come se si cercasse sempre di rispondere alla domanda “lei cosa avrebbe fatto?”. Probabilmente era solo la suggestione di una diciottenne. In ogni modo sono stata fortunata ad aver avuto una generazione di docenti che per anni sono stati al suo fianco, testimoni diretti del suo lavoro e della sua dedizione per l’arte, sostenitori di un mondo artistico che li ha coinvolti, li ha visti protagonisti e a cui si sono sempre rivolti con molto rispetto e ammirazione.
Dalle esperienze maturate precedentemente com’è stato l’impatto con il mondo della Bausch, e come le piace dipingere a parole il suo lo stile?
L’impatto inteso come primo approccio al suo repertorio non fu traumatico, devo dire, anzi: la Folkwang mi stava già preparando nel quotidiano alla lettura e alla ricerca corporea di quell’estetica; un minimo di alfabeto lo stavo già apprendendo, quindi il primo “libro” non fu proprio inaccessibile. Di quel primo processo di ricostruzione e della prima esibizione che per me fu “Tannhäuser-Bacchanale”, porto con me un bel ricordo e tante emozioni positive. Per quanto riguarda lo stile, che si parli di movimento o elementi scenici, credo ci siano sicuramente delle caratteristiche estetiche ricorrenti e quasi simboliche, ma forse l’elemento fondamentale è il contrasto: virtuosismo, eleganza, forza, fragilità, definizione e ribaltamento di ruoli e generi, tutto al servizio dell’onestà del gesto, del racconto e della veridicità dell’intenzione.
La capacità della Bausch, e delle sue creazioni, risiede nello scavare dentro l’anima del danzatore, toccando i sentimenti più puri, i pensieri intimi e personali, la consapevolezza… è stato difficile Maria Giovanna lasciarsi andare completamente?
Tasto dolente! Non sono sicura di esserci completamente riuscita, sento che una parte di me è ancora nascosta e sta aspettando con ansia di venir fuori; forse questa nuova esperienza potrebbe essere la “chiave” che sto cercando. Sicuramente riesco a lasciarmi andare nell’istante, nella vita breve dall’apertura del sipario agli applausi finali, nell’unico momento in cui non possono esistere dubbi e giudizi. Il mestiere del danzatore, così come ad esempio quello dell’attore o dello scrittore, ti dona la possibilità di vivere la tua e “tante altre vite”, ma ancor di più ti onora della gioia e del dolore di poterne rivivere e condividere esperienze ed emozioni. L’intima universalità dei temi e delle scene di vita che la Bausch ripropone nelle sue creazioni rendono questo viaggio intenso ed assolutamente inevitabile.
Oggi come nasce la riproposizione dei lavori di Pina?
Non riesco a rispondere a questa domanda poiché appena arrivata; è una curiosità che attira anche me.
Tra tutti gli spettacoli firmati da Pina B. nei quali ha danzato, qual è il suo preferito e perché?
“Blaubart” mi è piaciuto moltissimo: è intenso, brutale e fragile sia a livello semantico che emotivo ed è strutturato in maniera tale che ti è praticamente impossibile uscire, pur volendo, con la mente e con l’attenzione da quello “stanzone bianco”. Ma ad oggi il mio preferito rimane indubbiamente “Le Sacre du Printemps”. Che dire, parla da sé; credo sia una capolavoro coreografico di altri tempi, una delle cose più belle che ho danzato fino ad ora, in cui ogni nota si traduce in un gesto, un respiro, un movimento; è il pezzo dei cinque sensi per eccellenza, sia per il danzatore che per lo spettatore. Forse sembrerò esagerata, ma poterlo interpretare è un’esperienza che ogni danzatore dovrebbe provare sulla propria pelle. Quel “Ring di terra” non ne ha per nessuno!!
Ben appunto ha già danzato, in qualità di ospite, alcune celebri creazioni della Bausch. Me ne vuole parlare nel dettaglio, una per una?
Durante il periodo di studi ho partecipato alla ricostruzione di “Tannhaeuser”, coreografia che segnò un po’ l’inizio del suo percorso a Wuppertal, e “Cantata-Wind von West” per il Festival Pina40. In esso si ricreò l’originale serata Strawinsky (Cantata-Zweiter Fruhling-Sacre) e la messa in scena di queste tre coreografie fu un progetto di collaborazione e scambio fra la Folkwang e la Juilliard, grande e rinomata istituzione newyorkese. Successivamente partecipai a due stagioni consecutive nello spettacolo “Le Sacre du Printemps” menzionato precedentemente, con spettacoli anche all’estero; il più memorabile per me fu quello all’Arena di Nîmes, in Francia, nel 2016: la musica dal vivo, l’anfiteatro dal soffitto stellato, il vento di giugno, semplicemente magico. “Die Sieben Todsuende” e “Blaubart”, sono due pezzi a cui ho lavorato in contemporanea: sono rispettivamente del 1976 e del 1977 e il fatto che nel giro di un anno la Bausch abbia creato due spettacoli così diversi, passando dal musical (data la compresenza di musica dal vivo, danza, canto) al puro teatro-danza, è testimonianza della sua ecletticità e della sua continua curiosità e ricerca. L’ultimo a cui ho preso parte e che per ragioni ben conosciute non siamo riusciti ancora a portare davanti ad un pubblico è “Das Stueck mit dem Schiff”. Il processo per me è durato solo due settimane e influenzato da tutte le regole e restrizioni del momento. Un susseguirsi di assoli e poche scene d’insieme in cui si cerca un contatto, un’interazione con l’altro, tutto sotto lo sguardo imponente di una nave che sovrasta la scena dall’alto di una scogliera. Il sentirsi quasi “soli all’interno del gruppo”, è la sensazione che più ho trovato affine al periodo storico che stiamo vivendo.
Mentre del lavoro con Cristiana Morganti, famosa ballerina di Pina Bausch, qual è l’aspetto che maggiormente l’ha colpita?
Lei, senza dubbio, perché Cristiana Morganti ti travolge! Carisma e “pacata follia”, cura del movimento dal virtuosismo al più semplice gesto e verace teatralità, sono sue caratteristiche indiscutibili e innegabili. Quando tutto è iniziato già era ai miei occhi una grandissima artista, ma lavorando insieme, è diventata ancora di più un esempio; mi ha insegnato molto e l’intero processo è stato una vera e propria “terapia” umana ed artistica. Inoltre nel caso specifico di “Another Round for Five”, che è appunto la sua ultima produzione, credo che la Morganti sia stata magistrale nella scelta di tutto l’organico, dagli interpreti, agli assistenti, a tutti coloro che hanno lavorato alla riuscita di questo spettacolo. Si è creato un clima talmente familiare che per cinque sconosciuti quali eravamo, sono bastate letteralmente poche ore per mettersi a nudo e raccontarsi.
Durante la permanenza al Folkwang Tanz Studio ha potuto collaborare in sala prove con differenti coreografi ed artisti. Diamo una definizione per ciascuno di loro a beneficio dei nostri lettori: Reinhild Hoffmann, Henrietta Horn, Micheil Vandevelde, Iker Arrue?
Attraverso quel che ho vissuto in sala, ho percepito la grande esperienza artistica che Reinhild Hoffmann ha alle spalle, la sua attenzione e dedizione al lavoro, la chiarezza su quello che voleva e come ottenerlo; soprattutto la sua tempra ammirabile poiché appartiene a quella generazione che mi piace definire “d’acciaio” perché ci ha regalato grandissime personalità. Non credo debba dire molto altro, la sua carriera parla da sé. Henrietta Horn non è stata solo una coreografa, ma anche un’insegnante e un mentore durante il mio biennio alla Folkwang: intelligente, osservatrice, empatica, estremamente curata nei modi e nelle parole, diretta, attenta alle energie in sala e sul palco. La Horn ha avuto un fortissimo impatto sul mio percorso di studi, mi ha spronata, cambiato molto e assolutamente in positivo. Rispetto il suo giudizio, e le sono grata per aver creato “Auftaucher”, una delle coreografie che ancora oggi il mio corpo ricorda con estrema felicità e desiderio. Iker Arrue è stato il primo coreografo con cui ho lavorato come membro del Folkwang Tanzstudio. Egli ha un linguaggio di movimento ben definito, a mio gusto estremamente armonico e piacevole da indossare, che subito ho apprezzato e sentito mio. È stato un piacere lavorare con lui e spero ricapiti presto. Michiel Vandevelde è un coreografo che, per la sua giovanissima età, sta emergendo e conquistando velocemente la scena contemporanea; ha condiviso con noi FTS la sua visione futuristica della danza, partendo da esempi emblematici che ne hanno fatto la storia. Le prove sono un giusto equilibrio tra lavoro fisico intenso e momenti di interazione e confronto; si percepisce l’attenzione alla storia e alla politica nel suo lavoro.
Come collocare l’estetica di Pina Bausch nel campo del teatro?
Rispondere a questa domanda significherebbe trovare un fil rouge che unisse quasi quaranta coreografie, e che fosse più significativo e profondo di una mera e superficiale citazione di oggetti, abiti e/o elementi scenici presenti nella maggioranza delle sue creazioni. È per questo difficile dare una collocazione definita e definitiva alla sua estetica poiché credo ci sia stata, nel corso della sua carriera, una voglia di sperimentazione, di distacco dai canoni estetici preesistenti e quindi un’inevitabile evoluzione della sua espressione teatrale: da opere a tema letterario come “Iphigenie auf Tauris” o “Orpheus und Euridike” dal carattere più classico e tecnico, ad esempi di contaminazione di generi e critica sociale come “Die sieben Todsuenden”, alla personale citazione di “luoghi e tradizioni” come “Palermo, Palermo”; un’ecletticità di temi e rappresentazioni che non ha riscontrato sempre il favore del pubblico. Ci sono stati spettacoli che furono tanto amati quanto discussi, applauditi quanto fischiati, proprio perché rivoluzionari per il loro tempo e primi esempi avanguardisti di un teatro dalla narrativa non lineare, d’esperienza, in cui trionfa la potenza del movimento così come del gesto e della parola: una successione di quadri, una contemporaneità scenica di azioni ed avvenimenti, situazioni che si ripetono, personaggi che ritornano, una varietà di musiche e scenografie suggestive, a tratti reali. Bausch dal gesto più tecnico e classico alla ricerca del “perché” del movimento stesso, promuove l’eterogeneità dei corpi, la bellezza della diversità che diventa punto focale e vincente della narrazione, così come la realtà nella sua complessa semplicità. A far clamore è la messa in scena della persona-danzatore, della rappresentazione della quotidianità raccontata mediante gli occhi e le esperienze dei suoi ballerini. Quello della Bausch non è altro che il Teatro della Vita, la rappresentazione di temi universali, di emozioni, passioni, paure, difficoltà, ricordi, contraddizioni, cliché, usi e costumi, esperienze e desideri; un teatro che parla dell’essere umano nella sua imperfezione.
Quale è stata la serata più emozionante vissuta durante la sua permanenza al “Folkwang Tanzstudio”?
6 Novembre 2018, Teatro Metropolitano di Medellìn, Colombia; in scena “Auftacher” di Henrietta Horn. Ricordo tutto di quell’esperienza; dall’arrivo al teatro per le prove generali quando abbiamo visto il palco per la prima volta e a bocca aperta ci siamo sentiti piccolissimi di fronte alla platea di 1600 posti ancora vuota, alla standing ovation e agli applausi finali, calorosi ed interminabili, dimostrazione del fatto che quell’energia surreale che avevamo provato in scena non aveva coinvolto solo noi danzatori. Non so spiegare a parole l’unicità dell’atmosfera che si era creata quella sera, lo spettacolo di per sé ha già un inizio intimo e misterioso, ma tra le luci, la lontananza della platea dal proscenio, ci è sembrato di vivere in un film. Poco prima del finale, le luci di sala si accendono e per la prima volta, da copione, tutto si interrompe e prendiamo consapevolezza del pubblico: quel momento di stupore fu reale, travolgente ed emozionante. Dopo gli inchini ci siamo ritrovati con il direttore e l’assistente dietro le quinte, occhi lucidi e grandi sorrisi d’orgoglio sui loro volti. Ci siamo abbracciati in gruppo, senza aggiungere nulla.
Mi racconti come era strutturata e di cosa parlava la premiata coreografia creata “per danza e magia”?
Si tratta di una coreografia creata per e con l’illusionista e artista Alexis Arts, per i Campionati Mondiali di Magia del 2015. L’obiettivo era quello di creare un atto che avesse come protagonista le grandi illusioni, ma che non si articolasse in una semplice successione di trucchi, bensì attraverso una storia raccontata anche dal gesto e dal movimento coreografico. Il tema universale dell’amore che vince su tutto, ambientato nella fredda e dura realtà di un carcere; un uomo condannato ingiustamente, dopo la visita della sua donna amata deciderà di tentare la fuga: una successione rapida di scontri e incontri, di lotte e piccoli attimi d’amore sospesi nel tempo che lo porterà all’ambita libertà.
Qual è la potenza evocativa della musica di Stravinsky e della coreografia di Pina per la “Sagra della primavera”?
Credevo che una volta imparata la versione Bausch della Sagra, fosse difficile poter ascoltarne solo la melodia, perché ti rimane talmente impressa nel corpo che i tuoi muscoli si muovono involontariamente ad ogni accento conosciuto; invece poi ho capito che la magia della Sagra è proprio nella sua musica: ho assistito ad un concerto e l’orchestra semplicemente danzava... La Sagra della Primavera è stato uno dei grandi scandali musicali degli inizi del Novecento, la prima fu un fiasco poiché il balletto e la musica erano fuori dai canoni del tempo, forse troppo avanguardisti per essere capiti ed apprezzati dal pubblico mondano parigino. Tuttora se pensiamo alla Primavera, il primo richiamo sonoro che ci viene in mente è quasi probabilmente Vivaldi, ma la Sagra non ha niente di bucolico e trionfante, poiché ha come soggetto un rito propiziatorio, il sacrificio di una vergine agli dei, in cambio della loro benevolenza in vista della nuova stagione. Cielo e terra è forse il primo contrasto che si può percepire: fra la varietà di melodie irregolari, l’orchestrazione complessa e ben congegnata, gli archi e le percussioni si interfacciano in un “botta e risposta” intenso e dalla forte espressività emotiva richiamando il dualismo fra mortale e divino, fra ciò che da sempre esiste e ciò che sussiste. Ad arricchire le voci attraverso il quale il brutale culto pagano si racconta ci sono i fiati, che quasi da narratore iniziano l’opera, introducendo un clima di mistero, annunciatore ma non rivelatore del tripudio di colori e immagini che irromperanno successivamente. Come danzatrice ritengo, il tema iniziale del primo fagotto è tutto, un brivido che sale lungo la schiena, la quiete prima della tempesta, il momento in cui si stabilirà l’energia della performance. La Bausch è stata magistrale nella sua interpretazione della storia, che ben si differenzia dal balletto di Nijinsky, riportando nella sua coreografia la stessa intensità di immagini e varietà di sfumature narrative. Ogni suono corrisponde ad un gesto, un’azione, un impulso che come un’onda originata dalla terra vibra attraverso i corpi dei danzatori esplodendo in “poetici disegni di braccia”; la parte inferiore del corpo è destinata al ritmo, che per analogia alla partitura è spesso irregolare, a volte sorprendente, e quasi sempre dal carattere tribale; forte il contrasto donna-uomo, fra l’innocenza e l’istinto primordiale, fra vittima e carnefice. Credo, però, che al di là dell’estetica che può piacere o meno, ciò che incolla lo spettatore alla poltrona è la lotta che il danzatore affronta durante quei quaranta minuti: il fiatone, la stanchezza sul volto, la determinazione alla sopravvivenza. Ogni emozione è reale e vissuta!
Quale emozione ha provato nel danzare sul palcoscenico londinese del Sadler’s Wells?
Si sta parlando di un teatro che ha accolto e accoglie i più grandi nomi e le più famose compagnie mondiali, crocevia e vetrina artistica fondamentale per la divulgazione della danza contemporanea e non in Europa, per questo sarebbe scontato e banale parlare di felicità. Posso soltanto dire che il Sadler’s Wells era uno dei teatri sulla mia lista dei desideri quindi aver calcato quel palcoscenico è stata sicuramente una grandissima soddisfazione.
Come sta vivendo a Wuppertal il periodo legato all’emergenza sanitaria?
Cercando serenità nella quotidianità, speranzosa e in attesa come tutti; sfruttando e rivalutando l’unico regalo che questa situazione disastrosa ci ha paradossalmente donato, il tempo. La grande fortuna è che rispettando tutte le restrizioni e regole riusciamo ad avere qua e là sporadiche prove, spesso singole, che mi concedono sicuramente una boccata d’aria. La normalità che sta assumendo l’isolamento e la distanza inizia a farmi paura, per non parlare dell’impatto che questa situazione avrà sul nostro futuro; l’incertezza è una nemica silenziosa e crudele, bisogna alleggerirne i danni vivendo il presente con consapevolezza e, soprattutto, gratitudine.
In Italia, in alcuni settori, c’è ancora confusione tra danza modern e danza contemporanea. A suo avviso quali sono le differenze sostanziali e basilari?
Effettivamente con la contaminazione degli ultimi anni è difficile trovare una distinzione netta. Entrambi i termini categorizzano più stili e talvolta più tecniche, inoltre anche solo definire la danza contemporanea non è semplice ed è ancora motivo di dialogo e dibattito. Azzarderei dicendo che entrambe hanno principi di movimento comuni, studiati e praticati in maniera differente; la danza Modern è forse più codificata nella forma estetica e nell’apprendimento in cui, il principio di movimento, può essere analizzato e appreso attraverso sequenze ed esercizi. La Contemporanea include gli stessi principi ma ha talvolta un approccio più somatico al movimento, il modo di arrivare alla forma è differente. La relazione corpo-spazio è spesso meno “accademica”, si ricercano diverse qualità di movimento attraverso la decomposizione/deformazione del corpo, e l’improvvisazione è un elemento presente spesso anche dominate in sala e sul palcoscenico.
Del repertorio classico accademico a quale titolo è più affezionata?
Considerando che è stato il mio primo saggio e che il disco di Čajkovskij con le sue tre opere per balletto è stato il primo che ho amato e rubato dalla collezione musicale di mia madre, direi “Lo schiaccianoci”. Ammetto, però, che amo i momenti teatrali che hanno una punta di dramma: se in questo momento, in una vita parallela, fossi un’étoile, mi piacerebbe interpretare almeno una volta la scena della follia di “Giselle” del primo atto o il passo a due del terzo atto, della “Dama delle Camelie” di Neuemeier.
Da giovanissima allieva aveva qualche mito a cui rifarsi legato al mondo di Tersicore?
Faccio parte della generazione dei “talent show” e del sogno americano, quindi film e televisione hanno sicuramente avuto una grandissima influenza sulla mia visione della danza per gran parte della mia crescita. Non ho mai avuto un Idolo nel senso più comune del termine; gli esempi a cui mi sono inspirata per migliorare e crescere li ho avuti con me in sala, molti dei miei compagni di sbarra e degli insegnanti che ho incontrato, dagli inizi fino a quelli attuali, sono stati il mio vero metro di paragone.
Da quale idea è nato il lavoro con la coreografa Ester Ambrosino nel racconto presentato al pubblico attraverso il gesto danzato?
“Romeo und Julia” e “Hercules”, le produzioni cui ho partecipato, sono completamente frutto della creatività artistica di Ester Ambrosino. La prima è stata una proposta moderna della famosissima opera di Shakespeare, con musiche inedite, una voce narrante fra i protagonisti, una scenografia minimal e dal carattere urban. “Hercules” è stata invece la dimostrazione che la danza in un’opera lirica, può diventare co-protagonista al canto e non solamente “ancella decorativa della narrazione”. Credo che due grandissimi punti di forza di Ester Ambrosino siano la sua intuizione, visione d’insieme e l’amore folle per ciò che fa; infatti la passione che trasmette in sala è contagiosa così come il suo temperamento siculo esplosivo.
La sua cifra stilistica Maria Giovanna, in qualità di coreografa, come la definirebbe?
Non la definirei! Ho realizzato ancora troppo poco per potermi definire una coreografa nel suo significato più completo; vorrei ancora sperimentare e mettermi alla prova. Non credo di non aver nulla da dire, e coreografare è un modo bellissimo di scoprirsi e raccontarsi, ma per il momento ho il desiderio ancora di ricercarmi e vivermi attraverso le parole e i racconti di altri.
Mentre in qualità di esecutrice quali sono i suoi punti di forza?
Spero la generosità e l’onestà. Non importa quanta e quale sia stata la preparazione, quando si arriva in scena si deve dare tutto quello che si può dare in quel momento; è un obbligo verso le aspettative di chi viene a guardarti e soprattutto un obbligo verso te stesso. Spendiamo così tanto tempo in sala a perfezionarci, metterci in discussione, a ricercare e lavorare per viverci quell’irripetibile momento sul palcoscenico, che non goderselo al massimo sarebbe una delusione ed uno spreco. Inoltre, anche se si interpreta un ruolo, la veridicità del momento ti sorprende sempre, trasformandosi in un gesto, uno sguardo, una reazione fuori copione, in quell’onestà che coinvolgerà il pubblico e renderà l’interpretazione tua.
Sicuramente il lavoro della Bausch ha radici profonde nel dizionario classico, ma è piuttosto il contesto in cui sono immerse le sue danze ad essere contemporanee, grazie alle scelte musicali, alle luci, ai costumi, così da creare ambienti in cui il danzatore si trova ad interagire in prima persona lasciandosi esplorare verso mondi nuovi... O sbaglio?
Sì, sicuramente l’influenza della formazione classica è evidente, ma come già menzionato in precedenza, fatta eccezione delle creazioni di carattere storico-letterario, le sue danze sono rappresentazione di momenti di vita, che proprio per la sua ciclicità di eventi, sono accessibili per il danzatore che si trova ad interagire in prima persona con esse. Ciò rende le sue opere contemporanee. Inoltre la potenza delle atmosfere e situazioni che scenicamente ha creato, rendono il processo di immedesimazione e di comprensione del significato, molto più facile.
Lasciando l’Italia a 18 anni ha avuto il coraggio di spiccare il volo per affrontare un discorso limpido sulla danza e sul movimento. A prescindere dallo stile e dalle estetiche esteriori come vede dal suo osservatorio la danza del futuro, e in qualche modo anche il mondo dell’arte in generale e della cultura?
Per quanto riguarda la danza, credo che si stia sperimentando, mescolando, concettualizzando così tanto, che presto mi aspetto un ritorno estetico al passato: questo tipo di ciclicità di mode avviene spesso e credo che, quando non si potrà più fisicamente e metaforicamente “deformare”, si ritornerà ad un’esaltazione estetica della forma. Per quanto riguarda l’arte, spero rimanga sempre non solo al servizio del singolo, ma della comunità, che continui ad essere manifesto della società, testimone della storia e dell’evoluzione, nemica scomoda della politica, promotrice della diversità in tutte le sue forme e valori, nonché motivo di riflessione, miglioramento, di critica ed autocritica. Spero che continui con la sua potenza estetica e con il suo vibrante valore di intrattenimento, così come non faccia mai dimenticare alle nuove generazione che è bello, o forse, necessario essere dei sognatori. Non faccio parte dell’ultimissima generazione ma sia come artista che come donna, con tutta onestà, del futuro ho un po’ paura; mai come in questo periodo si è capito quanto la cultura non venga considerata necessaria e questo mi rattrista. Mi auguro che, nonostante il progresso velocissimo degli ultimi anni, del periodo di isolamento che stiamo vivendo, dell’egoismo e dell’egocentrismo che regolano un po’ le nostre vite, l’arte e la cultura possano sopravvivere e continuare a curare l’animo. Mai come ora abbiamo bisogno di sognare ed immedesimarci “nell’altro”, e l’arte è madre di entrambe le cose.
Oltre alla continuità del lavoro della Bausch, a quali altri coreografi della scena attuale rivolge il suo sguardo? Chi ritiene davvero interessanti?
Scegliere un nome o paio di nomi è difficile poiché credo che al momento, specialmente in Europa, abbiamo diversi coreografi interessanti; ce n’è per tutti i gusti. Diciamo invece che se i teatri potessero riaprire domani andrei volentieri a vedere un eccentrico spettacolo di Ekman, qualcosa di Damien Jalet o Hofesh Shechter o perché no un capolavoro sempreverde come “May B” di Maguy Marin.
Essere presenti nell’oggi è un’attitudine come rimanere ancorati al passato? Quanto conta nella sua visione la Storia?
Non possiamo prescindere dalla nostra storia; che si parli del mondo in generale o del singolo, non siamo altro che il risultato e lo specchio di tutto ciò che abbiamo vissuto fino a quel momento che chiameremo “presente”. Vivere nell’oggi o rimanere ancorati al passato sono scelte, in ogni caso credo che l’attitudine giusta dovrebbe essere vivere senza estremismi, barriere troppo alte, definite e definitive, tanto da non potersi adattare al continuo naturale mutamento della vita. È importante soprattutto vivere con i giusti filtri e tanto tanto rispetto; a quel punto, se ci sarà rispetto per “chi siamo stati e per quello che siamo ora”, useremo la storia come insegnante e promemoria del giusto, così da ricavare il meglio da entrambi le scelte.
Come si relaziona con il proprio corpo nello spazio?
È una relazione imprescindibile e necessaria. Credo che un grande danzatore non sia soltanto colui che sa muovere il suo corpo con ambita perfezione, ma colui che tratta lo spazio come un partner silenzioso e indispensabile.
Negli ultimi anni l’arte della danza con il proprio flusso evolutivo ha restituito dei danzatori maggiormente atletici, a volte quasi ginnasti… secondo lei è un bene o un male?
Più che un bene o un male, credo si tratti di un’evoluzione naturale. Viviamo in una società che promuove la perfezione, continuamente bombardati dalla competitiva idea del “di più”, del “migliore”; la danza, poi, è un’arte che di per sé ha la propensione alla perfezione e soprattutto al superamento del limite: che si tratti di linee armoniose, corpi estremamente dotati, grandi virtuosismi si cercherà sempre di dare e fare di più.
Inoltre gli stili si stanno pian piano mescolando, la danza si sta accostando e sposando con altri generi d’arte, il ballerino classico si sta sperimentando nello spettacolarizzare le sue capacità e la sua tecnica, mentre quello moderno e contemporaneo si sta trasformando in un “mover” capace di arrivare fino a limiti circensi. Anche l’arte si evolve, l’importante è non perdere di vista l’obiettivo: emozionare. L’arte è ciò che abbiamo a nostra disposizione per descrivere e, perché no, riscrivere il mondo; reale o immaginario che sia. È il luogo dove possiamo dar vita alla fantasia, all’utopia, dove possiamo raccontare, criticare, manifestare, consolare, deludere, vivere. Dobbiamo custodirla e farne buon uso. Non importa quanto estrema diventi la forma, se protagonista rimane il messaggio.
Ci sono primi ballerini che hanno gambe e piedi estremamente flessibili ma poi hanno lo sguardo perduto nel vuoto! L’espressività come la si interiorizza a suo avviso al meglio?
Immedesimandosi il più possibile nell’azione e nell’idea dietro di essa. Mi sembra di ripetermi nei concetti, ma è ciò che credo. La danza è comunicazione e per arrivare al pubblico, deve essere matura in tutti i suoi aspetti. Quando parliamo, non è importante solo la lingua che usiamo, ma per esprimere a pieno il concetto è essenziale un uso appropriato dei termini e il tono giusto; così per la danza la forma è solo l’alfabeto che utilizziamo per raccontare, ma il tono lo infonde l’interpretazione. Capire e metabolizzare l’idea dietro il più semplice movimento o gesto è essenziale. Inoltre è importante ricordare, specialmente a chi insegna la danza a livello privato o non ancora professionale, che non c’è gerarchia tra forma ed espressione; entrambe sono necessarie e dovrebbero essere egualmente trattate ed insegnate. Un nostro grande docente ci diceva sempre “La forma senza l’espressione è noiosa. L’espressione senza forma, imbarazzante”; concetto un po’ estremo forse, ma che credo renda l’idea.
È d’accordo con me nel sostenere che non esiste la ripetitività in uno spettacolo di danza, ogni esibizione è un piccolo spettacolo all’interno di quello grande, vedendolo e rivedendolo si scoprono sfumature differenti. Come vive Maria Giovanna l’attimo prima di entrare in scena?
Certo, gli attimi sono unici di conseguenza niente si può ripete esattamente allo stesso modo. Prima di entrare in scena l’adrenalina sale senza controllo; nonostante le prove, non sai mai quello che può accadere sul palco. Ma è proprio per questo che amiamo il teatro, no?! Un bel respiro profondo è necessario. L’attimo prima di entrare per me è sempre un cocktail di emozioni: paura e piacere si fondono, la testa viaggia a velocità pericolosa ricapitolando passi e sequenze, salgono dubbi ed incertezze, che subito si tramutano in necessità e voglia di iniziare... poi però speri che quella terza campana non suoni mai. A volte l’emozione può essere così forte da togliere il fiato o addirittura da chiederti “ma un’altra passione no?”. Insomma può essere uno dei momenti più difficili da gestire, quindi necessito sempre di un po’ di tempo per chiudere gli occhi, respirare profondamente e capire cosa fare fisicamente per preparare l’energia della prima scena.
Ha qualche rituale per mitigare la tensione?
Mi piace dedicarmi del tempo prima dello spettacolo; a seconda di come si articola la giornata cerco sempre di assicurarmi un po’ di riposo, un pasto adeguato e tempo sufficente nello spogliatoio: cuffie, musica (quasi mai quella dello spettacolo), molta calma nel truccarsi ed acconciarsi. Mi aiuta a concentrarmi e raccogliere le energie.
Quali sono i programmi per il futuro?
Diciamo che ho appena iniziato un’esperienza bella, spero intensa e che credo mi farà maturare tantissimo; nell’imminente futuro c’è la voglia e la necessità di godermi questa nuova realtà a pieno, di sfruttarla come “parco giochi artistico” e come possibilità di ricerca. Si sa benissimo ciò che non si è, che questa occasione possa essere la lente d’ingrandimento per mettere a fuoco ciò che mi appartiene, che posso e che desidero essere.
In conclusione, fino ad oggi, cosa le ha regalato di più esclusivo l’aver scelto quale compagna di vita la Danza?
La mia vita! Gran parte di ciò che sono oggi, di quello che faccio e posseggo lo devo a Lei: le lingue che parlo, i posti nel mondo che ho visitato, le persone che ho incontrato in questi anni, gli amori, le amicizie, le vittorie, i premi, le delusioni e le esperienze che mi hanno cambiata e temprata. Tutto, e tutto è il risultato di quella scelta presa anni fa. Se mi sono mai chiesta come sarebbe stata la mia vita se avessi scelto altro, qualcosa di “normale”? Sempre! Me lo chiedo spessissimo, specialmente nei periodi no, quelli dove niente sembra andare nel verso giusto, o dove devi combattere anche solo per far capire che la tua è una professione a tutti gli effetti. Per un giorno mi piacerebbe essere come Gwyneth Paltrow in “Sliding Doors”, prendere un’altra decisione e vedere l’altra me che vita avrebbe vissuto... ovviamente è solo curiosità, nessuno rimpianto. Le paure ci saranno sempre. Quella della danzatrice non è una carriera longeva, almeno nella maggior parte dei casi e per quanto mi riguarda cercherò di cavalcare l’onda finché ce ne sarà possibilità; è complicato in questo periodo ricordarsi che fare l’artista in realtà è un privilegio, quindi mi auguro che nonostante la lotta alla sopravvivenza in atto ormai da più di un anno, non ci si dimentichi mai che si è scelto un mestiere bellissimo. Come disse un giorno la grande Malou Airaudo, siamo fortunati “because we wake up in the morning, we go to a big house and we dance...”.
Michele Olivieri