«Godot è quello che sempre ci manca, è il desiderio»
Theodoros Terzopoulos racconta il suo Beckett prodotto da ERT
Intervista a cura di Nicola Arrigoni
«Estragon è sulla pietra; appartiene alla pietra. Vladimir è luce; è orientato verso il cielo. Appartiene all’Albero» e ancora «è tutto sulle pietre, sul mondo delle pietre: è il commento inequivocabile di Beckett a proposito del monologo di Lucky». Sono due citazioni tratte dal saggio di James Knowlson che cura insieme a Donald McMillian il volume: Quaderni di regia e testi riveduti: Aspettando Godot, pubblicato da Cue Press. Perché questa citazione, perché questa attenzione materica? La materia di cui è fatto il teatro è il corpo dell’attore, piantato sul palcoscenico, ma proteso a dar voce e carne alla parola, impalpabile atto poetico. Ed è alla materia che si rifà il teatro di Theodoros Terzopoulos, la materia che rinasce dalla terra, il Dioniso del teatro e, infatti, non è un caso che il regista greco affermi: «L’attore è al centro della scena, di fronte a lui si trova il dio estatico del teatro, Dionysos, il nato due volte, da Zeus e da Semele, rappresentante di identità che si escludono a vicenda e mutevoli, uomo e donna, furioso e mite, dio e animale, al confine tra follia e logica, ordine e caos». E in fondo che cosa fanno Estragone e Vladimiro se non attendere qualcuno che dia senso, dia ordine a un mondo, fornisca loro una rivelazione. Questo è ciò che i due fanno nella gestione dei movimenti, nell’abitare lo spazio e il mondo del palcoscenico: alberi i uno spazio sospeso nel tempo e astratto. E allora viene da pensare che la drammaturgia beckettiana ben si addica a Theodoros Terzopoulos, una di quelle personalità che nel suo fare teatro ha dato vita a un pensiero non solo sul teatro, ma anche sull’uomo, elaborando un vero e proprio metodo. Per capire ciò che vuol dire si veda Il ritorno di Dionysos. Il metodo di Theodoros Terzopoulos, pubblicato da Cue Press che testimonia di come il fare teatro per il regista sia un modo per elaborare un’ipotesi del mondo che parte dalla tragedia greca, affonda le sue radici in essa, vi torna ciclicamente, sotto mentite spoglie, ma sempre debitore di quel teatro archetipo nato nella terra degli dei. Tutto questo lo si dice perché il fascino del teatro di Terzopoulos, conosciuto in Italia per i lavori presentati con la sua compagnia ATTIS, trova casa nella messinscena di Aspettando Godot di Samuel Beckett, allestimento in debutto allo Storchi di Modena, prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione Teatro nazionale.
Perché ha deciso di mettere in scena Aspettando Godot?
«Ho messo in scena in passato, per l’ATTIS, Dondolo, Improvviso dell’Ohio, e al Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo, Finale di Partita. Potrei dire tante cose per questa mia decisione, a proposito dell’atemporalità dell’opera di Beckett, della sua dimensione poetica, e di tanti altri aspetti riguardanti i personaggi. Ma la cosa che mi ha colpito del testo è il suo profondo legame con Eschilo, relativamente ad alcuni principi del poeta tragico, cioè la staticità e la vertigine interiore, il concetto di perdita e di nucleo ontologico. Quantunque sembri che quest’opera appartenga alla zona grigia dell’esistenza umana, che sia un’opera profondamente pessimista, tuttavia il modo in cui è scritta, la sua consistenza strutturale, le sue trasgressioni, il rifiuto come tesi, e la tesi come rifiuto, e soprattutto il sarcasmo, danno una dimensione di ottimismo e gioia per la vita. I personaggi non fanno filosofia, ma ironizzano, sono soggetto del loro sarcasmo, l'uno nei confronti dell’altro e ciascuno nei confronti di sè stesso. Ritrovano alcuni elementi dell’esistenza umana che tendono a scomparire. Come la relazione del lutto con l’amore, e della morte con il fascino. Aspettano, riconciliati con l’idea della morte, cercando di riconciliarsi con sè stessi, e viceversa».
Come è arrivato a scegliere due attori come Enzo Vetrano e Stefano Randisi, senza dimenticare Paolo Musio e i più giovani Giulio Germano Cervi e Rocco Ancarola?
«Ci siamo incontrati a Modena per un grande progetto sulle Baccanti di Euripide, progetto che alla fine non è stato realizzato, ma ho detto loro che sarebbe stato bello se fossimo riusciti a fare un’opera di Beckett, Finale di partita oppure Aspettando Godot. Perché, osservandoli, la loro fisicità, la voce, e in generale la loro abilità espressiva mi avevano colpito. Sono attori bravissimi, molto colti, con uno straordinario interesse e curiosità per il lavoro teatrale con le loro interpretazioni uniche. Certo è straordinario anche Paolo Musio, con il quale ho collaborato diverse volte in passato, negli ultimi 30 anni, e in molte tournée. La prima volta fu con Antigone, la seconda fu Eremos di Carlo Michelstaedter in collaborazione con Jannis Kounellis e la terza era quando ha fatto il corifeo nell’Antigone che ho messo in scena a Wilma Theater a Filadeflia negli Stati Uniti d’America. Non è semplicemente un collaboratore, è anche un prezioso amico. Circa gli attori più giovani, Giulio Germano Cervi è un mio allievo, è venuto ad Atene a fare il workshop internazionale che l’ATTIS organizza ogni luglio ed è anche un istruttore, come anche Rocco Ancarola, vedo che il loro percorso è di grande intensità, ne sono felice. E ovviamente c'è anche il mio stretto collaboratore Michalis Traitsis alla drammaturgia. Si tratta di un gruppo straordinario che quotidianamente fa anche il training di ATTIS».
Che libertà si è preso nell’affrontare il testo di Beckett?
«Lavoro sulla tragedia da circa 40 anni, e questi testi difficili, che sono poetici e non hanno niente a che fare con il realismo, mi hanno aiutato tantissimo. Con il senso della loro pluralità mi hanno spinto ad avvicinarmi ad autori come Beckett, Müller e altri. I grandi testi si adattano ad ogni epoca, si rinnovano e si rigenerano. Solitamente i testi che metto in scena sono poesia e non letteratura».
Chi è Godot?
«Godot è l’inafferrabile. Quello che non riusciamo mai a realizzare. È il profondo desiderio radicato nel conscio e nel subconscio per superare la realtà e la quotidianità, non è facile. È la trascendenza, il viaggio verso la trascendenza che non si compirà mai. È quello che sempre ci manca. In tanti livelli e forme. È che tante volte il bisogno di trovarlo si massimizza».
Aspettando Godot - foto Johanna Weber
Cosa stanno attendendo i suoi Vladimiro ed Estragone?
«Non attendono niente. Stanno facendo esercizi di sopravvivenza creano scene e immagini di un incubo che viene dal futuro. Si divertono, fanno sarcasmo, ironizzano, giocano, rimbambiscono, proiettando immagini interiori dal subconscio, le quali si riproiettano sulla scena come riflessioni dal futuro. Sono due persone particolarmente creative le quali hanno rinnegato le istituzioni, le leggi, le convenzioni sociali, le certezze, e oscillano in un vuoto, in un mondo dove tutti i valori sociali sono stati devastati».
Ha cercato una sua chiave di lettura del testo beckettiano o si è limitato a farlo parlare?
«Il testo parla attraverso lo sguardo di chi vede lo spettacolo. Ogni epoca e ogni regista, ogni autore, guarda il testo attraverso il suo punto di vista, la sua cultura, il suo metodo di lavoro, la sua ideologia e la sua posizione politica. Questo significa che una grande forza per far emergere il testo ce l’ha il tempo, nello specifico l’ingrandimento del tempo che in seguito pone molte domande. La mia interpretazione è la giustapposizione di tante domande delle quali forse poche avranno una risposta. Se lo spettatore genererà domande proprie oppure si metterà nella condizione di dare delle risposte ad alcune domande che pongo io, allora siamo nell'inquieto paesaggio beckettiano del vuoto e del nulla. Solitamente il vuoto lo percepiamo come un buco che ci inghiottisce. Se osiamo viaggiare al suo interno scopriremo tanti tesori nascosti».
Quanto un drammaturgo come Beckett rappresenta una sfida per un regista?
«E’ una sfida molto grande perché, mentre in apparenza ti dà una certa libertà, quando ti immergi ti accorgi di trovarti all’interno di una prigione. Il processo di sprigionamento delle idee, dei significati nascosti, delle energie, delle immagini, costituisce il campo creativo di un regista. Noi autori dobbiamo essere riconoscenti ai grandi classici greci, a Beckett, Müller, Genet, per fare qualche esempio»
È soddisfatto del suo Aspettando Godot?
«Lavoro con attori straordinari e sono molto contento per la nostra cooperazione. Tuttavia nonostante tutte le produzioni di successo che ho fatto non sono mai rimasto soddisfatto. La soddisfazione è la tomba dell’autore. E dobbiamo essere tutti nella condizione dell’attesa di Godot per non far finire mai la ricerca».
Cosa vuol dire produrre per un teatro nazionale come l’ERT?
«Conosco ERT da quando era gestito dall’ispirato direttore artistico Pietro Valenti che mi ha scoperto e mi aveva invitato a Vie Festival. ERT è molto conosciuto in tutto il mondo come un organismo teatrale aperto a nuove idee e forme. Mi ha scoperto Pietro Valenti quando venne ad Atene all’ATTIS a vedere uno spettacolo e da allora è nata una collaborazione che si è sviluppata in molte direzioni. Ho proseguito l’eccellente collaborazione con Claudio Longhi, ora rinnovata con Valter Malosti. Da diversi anni ho un ottimo rapporto con Barbara Regondi, Stefania De Leo e Gioacchino Gramolini». (traduzione di Michalis Traitsis)