Attrice di grande esperienza, versatile e di formazione solida, Maddalena Crippa inizia professionalmente con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, e ben presto diventa una delle protagoniste dello spettacolo italiano. Ha lavorato, oltre che con lui, con Antonio Calenda, Antoine Vitez, Beppe Navello, Roberto De Simone, Ronconi, Squarzina e tanti altri, fino a incontrare sul suo percorso Peter Stein, con cui divide da anni anche la vita privata. Al cinema la troviamo in Tre fratelli di Francesco Rosi, o ne Il paradiso del pavone di Laura Bispuri ma è nel teatro (anche musicale, con bellissime esperienze sotto citate) che ha sempre trovato il suo punto di forza maggiore. E’ considerata una delle grandi signore della scena, grazie a una presenza scenica importante, talentuosa e a una personalità forte.
Buongiorno Maddalena, come stai?
Bene grazie.
Che ragazzina sei stata? Il teatro era già una tua passione allora?
Ero un maschiaccio, dal piglio intraprendente. L’amore per il teatro l’ho scoperto molto presto, in Brianza, dove sono nata. Fu grazie a mio padre, commerciante, grande appassionato di prosa e di lirica. In quegli anni l’oratorio era diviso tra maschile e femminile, ma si decise di fare un esperimento con ragazzi e ragazze assieme, uno spettacolo teatrale, di cui fece la regia proprio mio padre. Era basato sulle poesie di Michel Quoist, e recitando presi una papera. Alla chiusura del sipario scoppiai a piangere ma ebbi un’emozione fortissima, una folgorazione verso quello che stavo facendo, molto intima. Fu qualcosa che non ebbe a che fare con il mettersi in mostra, col protagonismo, ma un momento istintivo, potente e fu lì che decisi che fare l’attrice sarebbe stata la mia strada. Avevo 12 anni.
Anni di fermento, dove anche il teatro si stava in qualche maniera trasformando?
Si’. Mio padre frequentava il Centro Culturale Brianteo, dove faceva il suo teatro dilettantesco ma lo spazio ospitava anche spettacoli bellissimi, come quelli del Gruppo della Rocca, Perelà l’uomo di fumo, il Sogno di una notte di mezza estate, che vidi. Nel mio comune facemmo una specie di scuola di teatro, mettendo in scena un paio di spettacoli, L’estro del vino con cui andammo a Orvieto e Il furfantello dell’Ovest di Synge. Erano gli anni che precedevano il mio inizio alla Scuola Paolo Grassi del Piccolo, dove il caso volle che prima di finire il liceo artistico lessi sul giornale che Strehler cercava Anja, per Il giardino dei ciliegi di Cechov, e il provino era aperto a tutte le ragazzine.
Naturalmente immagino che ci andasti.
Certamente, eravamo in quattrocento, e di fatto lo colpii, nel senso che solitamente dopo il provino ringraziava, mentre con me si informò, mi disse che non avevo nessuna inflessione dialettale, mi chiese cosa avevo fatto, se mi fosse piaciuto diventare un’attrice. Poi, per quella parte prese Monica Guerritore ma sicuramente avevo incuriosito il Maestro, e in qualche modo mi sentii confermata a continuare nel mio desiderio di fare teatro. L’anno dopo, infatti, suonò il telefono e mi dissero che Strehler mi voleva risentire, per un provino per Il campiello. Lo preparai portando il personaggio di Gasparina, ma lui mi scelse per Lucietta. Sono partita subito al massimo, come vedi.
Sei entrata nel teatro importante dalla porta principale.
Fu un inizio meraviglioso, iniziare con Strehler è stato un privilegio assoluto e una lezione straordinaria: di serietà, ricerca, di fare questo mestiere già al massimo livello. E poi Il campiello era come un concertato, un grande spettacolo corale. Abbiamo fatto quattrocentocinquanta repliche, tre stagioni intere, sei mesi a Milano e poi a Parigi, Mosca, Leningrado, Varsavia, Berlino.
Cose da poter montarsi la testa subito, se non si è coi piedi per terra.
Non era il mio caso, quella cosa non mi appartiene. Certo quel forte segnale artistico ha in qualche modo caratterizzato tutta la mia strada, ho avuto anche la possibilità di fare spettacoli da protagonista ma l’importante era, ed è, come si fa il teatro. Perché poi ho lavorato con tanti grandi della scena, Squarzina, Castri, Luca Ronconi, Cristina Pezzoli, grandi registi e altrettante esperienze. E poi c’è stato l’incontro con Peter Stein, che ha rafforzato l’idea del teatro come ensemble, di stare al servizio del testo.
L’attrice, dunque, che è…cosa? Cos’è Maddalena in scena?
Sono uno strumento, per cui devo perfezionare tutte le mie possibilità per rendere al meglio quello che faccio. Io sono un tramite tra l’autore e il pubblico, e il teatro per me è una grande, infinita passione.
Un amore che con gli anni si è rafforzato?
Assolutamente, io credo di essere un animale da palcoscenico, salire lì sopra mi dà una ragione di vita, di questo essere tramite per dare qualcosa, farlo arrivare, insomma non è tanto uno sfoggio di qualità o di bravura personale. E poi ogni volta è sempre qualcosa di nuovo, è irripetibile quel momento, è sempre un ripartire.
Il mestiere dell’attrice è un lavoro come un altro? C’è chi dice sì, chi no…
No, non lo è. Ma per me in ogni caso chi fa bene il proprio mestiere, con amore mi commuove sempre molto, mi colpisce. E questo è il mio caso. Oggi è necessario più che mai, visto che siamo isolati e abbandonati, sommersi da tutta questa connessione, da tutte queste informazioni non necessarie.
Recitare è un viaggio profondo dentro se stessi, dentro l’uomo?
E’ così difficile sperimentare qualcosa insieme che riguardi tutta la potenzialità dell’uomo, che non è solo carne e intelligenza, c’è tutta una dimensione spirituale, emotiva, sentimentale che oggi non viene nutrita, né spiegata, rispettata. Ci vogliono a tutti i costi consumatori estremi, succubi, e così siamo stati ridotti. Il teatro invece con questo ha a che fare, c’è un’unica possibilità di concentrazione, di riconnettersi con le proprie potenzialità umane nella loro totalità. Anche se è tutto sempre più veloce, consumistico pure nel settore artistico.
La tua prima sensazione avuta di fronte a Giorgio Strehler?
DI essere davanti a un grandissimo istrione, un grandissimo artista, il massimo a cui si poteva aspirare. Gli sarò sempre grata. Non riuscivo mai a dire una battuta intera, mi interrompeva sempre dandomi lezioni, ma ben vengano queste cose. Aveva una passione intensa, una ricerca continua di bellezza, sempre a servizio dell’autore, che appunto è stata la mia fortuna incontrando questi grandi del teatro come lui.
Le rivisitazioni sceniche come le vedi? Le versioni personali dei testi?
I grandi autori sono tali perché non finiscono mai di parlarci anche se sono antichi. Questa presunzione di rivisitare, di prendere un testo e dare la propria versione magari stravolgendo, non la capisco, la trovo una cosa grave. Magari invece si scrivesse qualcosa di proprio, piuttosto di prendere un titolo, un autore e poi, andando a vedere lo spettacolo, non trovare nulla dell’originale. C’è un’autorialità eccessiva, nell’uso che si fa degli autori, da parte dei registi intendo. Una cosa che trovo scorretta.
Talento e fortuna, ci vogliono entrambi per arrivare in alto?
Assolutamente si’, certo. La fortuna per me, ad esempio, è stata proprio essere in quel momento preciso lì, quando Strehler cercava una ragazzina di quell’età.
E penso anche la caparbietà. Ancora qualcos’altro?
Una crescita umana. Se non c’è questa che va di pari passo a tutte le sapienze maturate, per me il lavoro che si fa non ha molto senso. Il saper comunicare, coinvolgendo la sfera interiore, umana, un valore aggiunto che reputo fondamentale, che è una capacità di progredire e di come saper stare sulla scena, di non riprodurre meccanicamente.
Alle giovani attrici che consiglio ti senti di dare?
Che se si sente questo desiderio, questa attrazione per essere interprete, per fare teatro, bisogna provarci, metterlo in pratica. Scuole ce ne sono anche troppe in Italia, ovunque, c’è una proposta enorme ma dall’altra parte non c’è tutta quest’offerta di lavoro. Ma ognuno è figlio del proprio tempo, e bisogna provare con quel che si ha a disposizione, mettersi in gioco.
La più grande attrice di sempre?
Difficile dirlo. Rispetto a quello che ci arriva oggi, di un tempo, la Duse? Sarah Bernhardt? Ma quelle erano epoche straordinarie in cui il teatro era un punto di riferimento per la gente. Oggi è molto diverso, c’è il cinema, la fiction, tante sfaccettature e possibilità diverse. Ogni periodo dunque ha le sue grandi attrici, le sue eccellenze.
A maggio sarai in scena diretta ancora da Peter Stein, con una trilogia di Cechov, Crisi di nervi. Debuttate a Palermo, al teatro Biondo, e poi Milano, al teatro Menotti. Lo riprenderete nella prossima stagione, come Un sogno a Istanbul, con Maximilian Nisi, che hai appena terminato e che ha avuto un grande successo ovunque siete stati?
Si’, li riprenderemo entrambi, il primo da inizio 2025, mentre il secondo già da ottobre di quest’anno.
Chiudiamo con una tua visione sul teatro, oggi.
Vive di una strana frammentazione, difficile. Il teatro ha bisogno di tempo anche per conquistare il pubblico. Stare tre giorni, o una settimana in una grande città…è poco. Anni fa si stava molto di più e c’era la possibilità di incidere sull’aspetto sociale e oggi trovo che questo sia molto complicato. Penso invece, ad esempio, a Siracusa, dove in estate si sta tre mesi, con cinquemila persone a sera e dove si ha di ritorno un feedback su quello che si è fatto, incontrando le persone.
Quando vedremo di nuovo Maddalena Crippa cantare e ballare?
In qualche modo la musica entra in Un sogno a Istanbul, che è stata una vittoria perché non era facile adattare il poema in versi di Rumiz, che Alberto Bassetti ha scritto per il teatro. Abbiamo avuto un grande interesse e un enorme riscontro di pubblico. Personalmente, sarò strana, ma non mi va di ripercorrere una strada già fatta solo per il successo in sé. Ho fatto tanti spettacoli musicali belli, Le canzonette vagabonde, E pensare che c’era il pensiero, Sboom, Italia mia Italia, ma sono tutte cose nate da un’esigenza precisa, da una voglia di costruire qualcosa di nuovo e sempre assieme ad altri, delle vere collaborazioni. Ma ci dev’essere lo spunto, e in questo momento non ce l’ho. E poi, ridendo e scherzando, anche gli anni passano. Emilio Russo mi aveva proposto di riprendere Sboom ma penso che quando le cose sono state fatte bene, per tanto tempo, all’età giusta, va bene così. Non sono per rifare le cose, piuttosto penso a farne totalmente nuove, anche azzardando.
Francesco Bettin