La Notte, 18 marzo 1971
Dopo sessant’anni esatti dacché vide la luce quale romanzo, Il codice di Perelà di Aldo Pazzeschi prende la via del teatro e sale sul palcoscenico come Perelà, uomo di fumo. Non essendo detto, né sul manifesto né sul programma, chi si è presa la responsabilità della riduzione a misure sceniche, se ne deve dedurre che essa sia opera collettiva della “compagnia a struttura autogestita” denominata Il gruppo, oppure, come è più probabile, del suo direttore e regista, Roberto Guicciardini; giunti al Lirico e favorevolmente già conosciuti, l’uno e l’altro, per un’originale esecuzione della Clizia del Machiavelli applaudita nella passata stagione.
Uno pensa a Palazzeschi, gli viene in mente il famoso “lasciatemi divertire”, emblema dell’estetica del disimpegno, e si aspetta una capricciosa favola per adulti all’insegna di un bizzarro umorismo: un ammiccante sollazzo sui balconi dell’intelligenza, e gli basta. No, che lo spasso gli deve essere inseriosito, problematicizzato e, di conseguenza, guastato, dalle elucubrazioni socialfilosofiche che gli appioppa il programma di sala. State a sentire: “Perelà vive nel mondo rarefatto della metafora, è un personaggio essenzialmente poetico” e va bene; egli è un “desiderio di disponibilità assolute” nell’ambito del futurismo di Palazzeschi, “che fu diverso dal futurismo di Marinetti”, e va ancora bene… Dove il cielo si rannuvola e cessa di andar bene è quando dice che “questo non gli impedisce di far parte anche della categoria delle ‘vittime predestinate’. Sta con uno stivale in un mondo ‘astorico’ (la sua ‘contestazione’ vagamente anarchica è infatti di ordine metafisico) ma rivela anche un ‘malumore’ effettivo, o una nostalgia terrena, o denuncia un disagio concreto a contatto con la comunità, che gli detta sogghigni per il moralismo altrui o una profonda tristezza per la mediocrità e miseria di tutti”. Capito? Io, francamente, mica molto.
Povero Perelà, inconsistente ometto di fumo, uscito dal camino e offerto all’interesse di tutti, causa la sua essenza incorporea, plasmabile da chiunque a proprio piacimento: essere assolutamente libero in un mondo privo di libertà! Il suo fascino, la sua forza, il suo potere consistono esclusivamente nel suo essere ‘diverso’. A null’altro, se non a questa volubile e instabile facoltà, deve tutto ciò che gli succede, non escluso l’onorevole incarico, da parte del re, di stilare il nuovo codice, l’ideale modo di vivere di tutta la comunità… e se ne andrà come è venuto, dissolto nell’aria, più leggero di una nuvola, abbandonando questo mondo terrestre a se stesso e alla sua mancanza di leggi.
Da questo a vedere in lui un contestatore il passo è piuttosto lungo. I bravi attori del Gruppo, naturalmente, si sono azzardati a farlo. Buon per noi, e lode a loro, l’averlo fatto con misura e discrezione, senza forzature e goffaggini, mantenendosi in un clima rarefatto, decisamente metafisico, alieno da ogni e qualsiasi tentazione realistica come le arrischiate intenzioni programmatiche potevano far temere. Merito il quale, non nascondiamocelo, conteneva un pericoloso trabocchetto, e cioè, checché se ne dica, la sostanziale e non eludibile concretezza della dimensione teatrale. In questo senso, la difficoltà stava addirittura a monte: nella natura surreale e favolistica del romanzo stesso. Mica vero quello che, nel loro entusiasmo neofitico, essi asseriscono, vale a dire che “il lavoro di riduzione teatrale è già implicito nell’opera stessa, è quasi una sua istanza segreta, un suo desiderio di diventar teatro” e men che meno vero che essa sia “già sceneggiata dall’autore”. Anzi, tutt’il contrario: una fantasia scorporata la cui essenza favolistica e irreale tanto si sente emancipata e libera sulla pagina quanto si mostra costretta e carcerata nell’invitabile antropomorfismo della scena. E ciò indipendentemente – un dippiù – dall’inconveniente aprioristico per cui ogni riduzione di un romanzo per la scena è fatalmente votata a riuscire un tradimento e una menomazione, comunque un’altra cosa. È, quindi, quantomeno ingenuo asserire che Il codice di Perelà tenda implicitamente a farsi opera di teatro soltanto per il fatto di essere un romanzo “in massima parte dialogato”.
Fuor di tante riserve e perplessità, prevalentemente suscitate dal primo tempo dello spettacolo – per fortuna, assai meno del secondo – va preso atto di una intelligenza, un impegno, una coerenza tonale e ritmica degni del maggior rispetto; dovuti, penso, la maggior parte, alla regia del Guicciardini, forte della scena e dei costumi di Lorenzo Ghiglia esemplarmente intonati alla sua visione dello spettacolo. Veramente di “gruppo” la recitazione che annovera, a pari merito, i nove interpreti, ognuno in parti plurime: Mario Mariani, Laura Mannucchi, Marcello Bartoli, Egisto Marcucci, Italo Dall’Orto, Paila Pavese, Gianni De Lellis, Dorotea Aslanidis e Nelide Gianmarco. Una citazione a parte a Giuseppe Verdi che ha graziosamente prestato alla rappresentazione le prime battute della sinfonia della Forza del destino.
Carlo Terron