La Notte, 13 aprile 1966
Apertura magari claudicante, però, quest’anno, qualche nuova commedia italiana d’autore non canuto s’è cominciato a vederla. Mica merito, per carità, dei grandi Teatri Stabili; escluso quello di Roma, nemmeno sfiorati, salvo qualche affaruccio in famiglia, dal sospetto che possa e debba esistere un repertorio non tradotto o, nella migliore delle ipotesi, ben stagionato, dove la muffa del tempo possa essere trasformata in porporina registica. No no, unicamente fatica di qualche fugace compagnia garibaldina. Ed ecco, ieri sera, claudicante la commedia e garibaldina la compagnia: tre attori in tutto e nessuno quel che si dice da squadra nazionale; ma insomma meglio così che niente, anche la politica degli avanzi a qualcosa serve.
Brunello Rondi, a cui si deve questa Stanza degli ospiti, sceneggiatore lombardo di qualità, naturalizzato romano, è di casa al cinematografo, ma non è nemmeno nuovo al teatro. Evidentemente, però, si trova più a suo agio nel primo che nel secondo dove – noblesse oblige! – sotto l’impulso, si direbbe, del complesso dell’intelligenza, la penna gli si impennacchia di letterari barocchismi e gli si ingorga di psicologiche sofisticazioni, tanto meno persuasive, quanto più intellettualisticamente elaborate e tanto più in ritardo quanto più vogliono apparir avanzate. Il copione, figurarsi! Mi ha fatto venire in mente nello stesso tempo Il seduttore del mio amico Diego Fabbri e pazienza, niente male, ma anche una vecchia commedia del povero Guido Cantini, della quale non tento nemmeno lo sforzo di ricordarmi il titolo, il che è assai più grave.
Le metamorfosi del teatro borghese sono proprio infinite, come lo sono le stranezze dell’età critica, si tratti di quella maschile che, sotto certi aspetti talvolta è ancor più capricciosa. Un argomento ricorrente nel repertorio di mezzo secolo fa, modulato in tutti i timbri, dal dramma alla farsa, fu quello dell’uomo – o della donna – di mezza età che, nel pieno della sua crisi coniugale – abitudinarietà, tedio, umiliazione e insofferenza del banale quotidiano, provincia dell’anima e dei sensi e via discorrendo, con altre eleganti civetterie – perde la testa e il resto per una creatura giovane, bella e trionfante di vitalità e, al suo contatto, ritrova gli entusiasmi, gli ardori, le belle illusioni, gli ormoni e così via del verde tempo che fu. I casi erano due: o il matrimonio andava a picco definitivamente o, facendosi dare una mano dal crepuscolarismo, dalla malinconia superstite di quell’”evasione” sconvolgente e rigeneratrice, l’unione, la comprensione coniugale ne usciva restaurata e, nei casi più fortunati, gratificata di un nuovo slancio. Effetti portentosi, crepi l’avarizia, del cosiddetto demon du midi.
Preso atto dell’aggiornamento consistente nella riduzione ai tre personaggi indispensabili nella brutale immediatezza della situazione, nell’eliminazione delle diplomatiche sfumature e nell’esclusione delle diversioni e dei particolari di contorno tradizionali; nella decisione, dopo scene e scenate, di tenersi – pare – in famiglia la ninfetta ispiratrice, dal canto suo nipote della signora, spregiudicatissima e tuttavia vergine a prova di dinamite, beninteso la ninfetta non la signora: un peccato in bianco… preso atto di tutto ciò, alla resa dei conti è, né più né meno quel che ci racconta il nuovo copione. E meno male che una certa scaltrezza nel taglio delle scene e un certo piglio aggressivo, qualità, mi sembra, sicuramente positive dell’autore, riescono a difendersi abbastanza validamente dall’insincerità di una scrittura perennemente sopratono nell’esaltato priapismo immaginifico delle proprie tortuosità intellettualistiche, occupatissime a spaccare i capelli in quattro per rendere problematico ciò che è semplice e pregrino ciò che è banale. Ma perché santodio, un autore, indubbiamente intelligente, intestarsi a voler che due più due anziché quattro debba far per forza quarantotto?
Opportunamente Arnoldo Foà, regista diligente e interprete semplificatore, ha ridotto il quarantotto a un ventiquattro a tutto vantaggio dello spettacolo, avendo vicina una Lea Padovani drammaticamente intensa e la fresca Marina Malfatti che, nel personaggio meno costruito e più credibile della commedia, ha versato l’acerba spontaneità dei suoi giovani anni. E’ accaduto al Manzoni e il pubblico ha applaudito, magari senza spellarsi le mani, ma ha applaudito.
Carlo Terron