Scrittura + interpretazione = grande teatro
A Number (Un numero) di Caryl Churchill (Cloud Nine, Top Girls, Serious Money)
Regia di Polly Findlay, scenografie di Lizzie Clachan,
tecnico del suono Carolyn Downing, tecnico luci Peter Mumford
Con Roger Allam (Salter) e Colin Morgan (B1/B2/ Michael)
Londra, Bridge Theatre, 14 febbraio - 14 Marzo 2010
di Beatrice Tavecchio
È un gioiello di scrittura teatrale per struttura, linguaggio, rilevanza di temi e loro sintesi. Quando a questo si aggiunge un’interpretazione così affiatata che ti senti respirare con le parole ed il ritmo del dialogo in scena, sai che stai assistendo ad un grande teatro.
L’andamento del dramma prende spunto dagli esperimenti genetici, ma si ampia ad esaminare problemi morali di identità. Chi siamo? Il codice genetico influisce sulla nostra personalità? Fino a che punto? ed approfondisce: la nostra composizione genetica ci determina anche moralmente, per il bene ed il male che facciamo?
Un’ora e quattro minuti di spettacolo, sintetico, veloce, strutturato come un “giallo”. Scritto nel 2002, il dramma narra di Salter un padre che lascia clonare il figlio, B1, trascurato e crudelmente trattato dopo il suicidio della moglie, per ritentare di essere un padre migliore col secondo figlio clonato, B2. La storia fuoriesce per gradi attraverso densi e taglienti incontri prima tra il padre e B2 che vuole sapere se è il figlio vero, amato dal padre e non uno delle “copie”, uno delle venti altre “cose”... “persone” clonate a sua insaputa. B1 il figlio vero è ora un disadattato e violento che incolpa il padre per quello che è. B1 uccide B2 e si suicida. Il padre rimane con Michael, uno dei venti clonati a domandarsi se anche moralmente lui era predestinato a fare le scelte che ha fatto.
Come si vede A Number è in essenza una tragedia per i due figli morti e per il suggerimento che non si sa quanti siano stati i cloni eliminati prima di arrivare a quello riuscito. Ed un triller nel dipanare le ragioni della violenza in B1 e nel dipingere un padre insospettabile all’inizio, che si rivela il brutale orco. Il male ed il bene in ciascuno sono avviluppati: il padre che voleva iniziare col secondo figlio ad essere buono dopo il male che ha fatto al primo, finisce col chiedersi, senza che Caryl Churchill dia una risposta, se anche la moralità dipende dal DNA. Ma delle risposte vengono date: si è buoni e cattivi allo stesso tempo e il finale ci ricorda che: “Abbiamo il novantanove per cento degli stessi geni come ogni altra persona. Ne abbiamo il novanta per cento come gli scimpanzé. Il trenta per cento come l’insalata.” Da cui si vede che Caryl Churchill immette momenti di comicità a sollevare il racconto. Tragico e comico finemente frammisti a dare respiro anche al pubblico, secondo la grande tradizione shakespeariana.
È una scrittura di corsi e ricorsi, il discorso di un personaggio confluisce in quello dell’altro che lo continua, eliminati i punti, le virgole al minimo, il discorso fluisce e si spezza secondo il significato: “B2: Quindi questo è stato lasciami chiarire questo è stato prima questo è stato alcuni anni prima di quando sono nato è morta prima”.
Magistrale non solo il fluire del dialogo ma anche la pertinenza delle connotazioni psicologiche nella parlata del personaggio. Vedasi il discorso dello psicotico, rotto, frammisto a temi appropriati: il cane di cui non si cura, l’altro cane che batte. La rabbia e la violenza che si riverseranno poi sul fratello suo clone, sono qui presentite: “Un mio amico andato in prigione mi ha chiesto di curarlo, battagliato con quel cane dall’inizio, rottweiler pit bull gli ho tirato una sedia, potevi frustarlo con una cinghia lui ritornava sempre”.
Roger Allam (Salter) e Colin Morgan (B1/B2/ Michael), soli sulla scena dialogano sincronizzati. Allam lento, a monosillabi, Colin Morgan, non più solo stella nascente, ma qui attore affermato, più veloce, alterna la sua cadenza caratterizzando l’incertezza, poi la rabbia, poi la positività nei tre diversi personaggi. La messinscena realistica di Lizzie Clachan ruota mostrando visuali diverse dello stesso ambiente. I cambiamenti avvengono nel buio più assoluto e sono sottolineati dalla musica distopica di Carolyn Dowing. La sinergia creata dagli attori, il cambio improvviso e distorto della scena in sintonia coi personaggi, il buio, la musica formano un tutt’uno col testo e trasportano il pubblico, alla fine acclamante.