The Burnt City (La città bruciata). Teatro immersivo e l’esperienza dello spettatore.
Creata da Punchdrunk in collaborazione con la Compagnia. Regia di Felix Barrett e Maxine Doyle;
coreografia di Maxine Doyle; suono di Stephen Dobbie, luci di FragmentNine, Ben Donoghue e Felix Barrett.
di Beatrice Tavecchio
Lo spettatore entra in quello che sembra un abbandonato capannone. Non ci sono scritte pubblicitarie o locandine fuori per indicare che è un teatro. Si entra, niente telefoni, borse o cappotti. Si è subito informati che si deve indossare la maschera muta, bianca, sembra un po’ quella di Pantalone, sulla mascherina protettiva del Covid. Si è infilati in un buio corridoio che si apre su uno spazio, chiamato PEEP, tipo bar Cabaret anni Venti, con un banco vendita minimo ma costoso e un piccolo palco con intorno tavolini con rose luminose che danno un pò di luce. Le pareti sono tappezzate con vecchi sipari polverosi. Si è chiamati a gruppi secondo il colore della carta da gioco che ci era stata data prima nel corridoio. Si accede a un’altra stanza sempre col minimo di luce, dove ci vengono date le ultime istruzioni: proibito parlare, seguire un percorso proprio, dividersi da partner ed amici, è possibile entrare in tutti gli ambienti, stare a rispettosa distanza da attori e da altri spettatori. Alcuni di noi sono effettivamente guidati a porte diverse e separati da amici, nell’accedere allo spazio performativo.
Il buio è quasi totale, delle flebili candele elettriche indicano il percorso che ha livelli accidentati e gradini; difficile vedere dove mettere i piedi. I corridoi sono lunghi, tortuosi, con porte che permettono l’accesso ad altri corridoi o spiazzi, ma molte chiuse. Delle stanzette si aprono lungo questi corridoi, dicono più di cento stanzette con o senza attori ad animarle: un negozio di un fioraio, uno scrittoio, una stanza con piccoli reperti archeologici greci, un’ altra con una mezza pagina di giornale degli anni Trenta con titoli di omicidi plurimi di donne contro uomini.
Si, perché siamo a Troia in questo primo edificio, ex-arsenale, - ci troviamo a Woolwich nel sud-est di Londra, in riva al Tamigi, armeria ed arsenale del diciottesimo secolo, oggi restaurati e ottimamente inseriti in un ambito complesso residenziale- collegato ad un altro arsenale di due piani, dov’è collocata l’azione ambientata a Micene, Grecia. The Burnt City si ispira all’Agamennone di Eschilo e all’ Ecuba di Euripide. Ne trae due temi: quello della vendetta di Clitennestra sul marito Agamennone per aver sacrificato la figlia Ifigenia agli Dei e quello della vendetta di Ecuba che acceca Polimestore per avergli ucciso il figlio Polidoro.
Dunque il labirintico corridoio porta nel primo edificio,Troia, ad uno spiazzo, piazza, circondata da ambienti/ stanze come il ‘Caffè Alighieri’, con scritte al neon e canzoni e musiche di sottofondo tipo quelle di Kurt Weill o del periodo. Luci soffuse, l’azione è al centro della scena, la figlia di Ecuba è subito immortalata e sospesa a testa in giù su un gancio. Il pubblico è tutt’intorno, l’arena performativa definita da un raggio di luce che forma una passerella visiva intorno agli attori. Ancora lungo il tortuoso corridoio, altri stanzini con ritagli di informazioni e poi si entra nell’altro arsenale, Micene. Qui l’azione è amplificata, gli spazi sono enormi, rettangolari, e l’azione è giocata sui due piani. A pianterreno, la scenografia appresta due superbe strutture, una un po’ più grande dell’altra, formate da due transenne di ferro incrociate a triangolo, falciate da una terza che si appoggia sulle prime come un cannone, su cui prima Ifigenia ed in seguito Agamennone sono sacrificati. Al primo piano - i due piani sono collegati da un’ampia scala-, l’azione parte dal lato più lontano dalla scala nello spazio, dalla camera di Ifigenia, dove vediamo l’affetto di Clitennestra mentre la prepara per la vestizione del preteso matrimonio; per poi srotolarsi sul lunghissimo tavolo su cui si dipana l’amore di Clitennestra per Egisto ed in seguito il suo dolore straziante per la morte della figlia; e finisce dal lato opposto a dove l’azione era incominciata, come in una linea retta che attraversa tutto il salone, sotto lo scroscio della doccia dove Clitennestra strozza il nudo Agamennone.
Punchdrunks the Burnt City. Foto Julian Abrams. Performer Morgan Bobrow Williams
A questo punto è bene chiarire che questo spettacolo non è parlato. Non muto perchè ci sono suoni gutturali e ritmi e musiche, specialmente drammatiche in Micene con rombi di guerra ed esplosioni assordanti sottolineate da lampi stroboscopici. E’ drammaticamente coreografato e agito da una compagnia cosmopolita di danza contemporanea.
È teatro allora? Sí, perché la tensione drammatica della storia, l’interpretazione emotiva e suggestiva degli ‘attori’, si riversa sugli spettatori creando immagini che ricostruiscono gli avvenimenti in una sequenza personale, non data, nelle loro menti, attivando un loro personale processo mentale. Direi di più, perché un lavoro su questa scala rompe gli schemi tradizionali. Lo spettatore in Micene, sia che sia sulla balconata al primo piano che a pian terreno, o sullo scalone che li connette, - via d’accesso per gli ‘attori’ da un livello all’altro e su cui si svolge la scena finale coreografata come Requiem ispirata dal quadro di un pittore fiammingo, con tutta la Compagnia che come un grappolo di dannati, cade mentre tenta di risalire la scala-, lo spettatore assiste a storie fluidamente concatenate, vitali, vibranti, che si svolgono su tre livelli, che lui spettatore ha contemporaneamente presenti. Mai, nè al cinema, nè in un teatro tradizionale è possibile catturare una tale visione d’insieme, con scene multiple ma concatenate che si sviluppano su tre livelli contemporaneamente presenti. È un’esperienza entusiasmante e spero indicherà il modo di un futuro sviluppo del teatro. Ci sono già altri esperimenti di teatro immersivo, ma questa compagnia, Punchdrunk, è unica nella cura verso i dettagli, nella presentazione di ambienti, luci, costumi e musiche, e soprattutto per l’eccellenza della coreografa Maxine Doyle che conta su una materialità e profondità d’interpretazioni non comuni. La doppia coppia di Dei, Apollo e Artemide e quelli degli inferi Persefone e Ade, si muovono ed agiscono come se statue greche fossero state animate o come i guerrieri dei Bronzi di Riace, il torso coperto e ristrutturato con corazze di splendenti muscoli camuffati, i loro gesti pesanti di significati. La discesa all’Ade in una sala pavimentata di sabbia, tra ritmi tribali e parete funeraria a lumini, con una coreografia che usa sabbia, movimenti e oggetti mischiando sacro e profano nella resurrezione di Ifigenia/Persefone, è tra le scene drammaticamente più potenti.
Qual è e come è, allora, l’esperienza dello spettatore? Direi che è data non tanto dal perdersi in labirinti oscuri e nel ricercare significati negli stanzini, pur dettagliatamente ricostruiti. L’attrazione, e gli spettatori mascherati correvano, per così dire, verso questi spazi, era dove si svolgeva l’azione drammatica, attirati non solo dalla storia che man mano indipendentemente ricostruivano, ma anche dalla presenza scenica degli interpreti. Il poter muoversi in modo da veder meglio o rivedere un’azione -la storia viene raccontata per ben tre volte in diverse riprese, nello spazio delle tre ore della rappresentazione- appaga maggiormente la curiosità, la voglia di capire e il piacere captare per intero o di nuovo una bella scena. La facoltà di scegliersi un posto da cui osservare, e la possibilitàs qui data, di poter assistere a multiple azioni allo stesso tempo, sono le innovazioni principali di questo spettacolo.
Vedi anche su Punchdrunk, di Beatrice Tavecchio, Il teatro digitale in Gran Bretagna. Parte terza, sipario.it , 23 gennaio 2021.