martedì, 05 novembre, 2024
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Il teatro è caduto nella rete… prove tecniche di futuro. Qualche riflessione su Anghiari Dance Hub e Residenze digitali. -di Nicola Arrigoni

Ci stiamo abituando? Abbiamo fatto di necessità virtù? Lo spettacolo dal vivo vive o sopravvive in streaming? Una nuova semantica della scena è possibile, in tempi di chiusura delle sale teatrali? Domande, domande e ancora domante che interrogano gli artisti, gli organizzatori teatrali, gli spettatori professionisti (i critici) e gli spettatori per passione, bisogno, necessità, curiosità ovvero il pubblico. Ma c’è pubblico nelle mille dirette streaming, nelle mille offerte online, nella pioggia di link a Zoom, Meet che ci chiedono di partecipare, costo del biglietto 3 euro simbolici? Con la curiosità di chi va in cerca di nuove/vecchie tendenze della scena contemporanea, con la nostalgia per un’abitudine al teatro sospesa ci si è confrontati con alcuni appuntamenti della massiccia, forse ipertrofica offerta di video, incontri, spettacoli in streaming che compagnie e teatri stabili stanno mettendo in campo. 

Allora prima di tentare un racconto personale delle emozioni e delle impressioni ricevute in questo girovagare davanti allo schermo del computer di casa per occasioni e appuntamenti, preme mettere in fila i fatti, da cui poi poter trarre una parziale, momentanea e sottoposta a naturali e inevitabili aggiornamenti, riflessione. Prima di entrare nel merito delle esperienze è necessario fare una precisazione. Si scrive mentre cresce il dibattito sul Netflix della Cultura immaginato dal ministro Dario Franceschini e a debutto fresco di Ricomincio da Rai 3 di Stefano Massini. La proposta televisiva di Massini da un lato e le produzioni video di teatri stabili, dall’altro, sono il segnale di una voglia di continuare a creare e a far vedere un teatro che lavora. Si pensi al docufilm dello Stabile di Torino dedicato a Casa di Bernarda Alba per la regia di Leonardo Lidi, piuttosto che ai Due gemelli veneziani di Goldoni per la regia di Valter Malosti, che ha debuttato in streaming per lo Stabile del Teatro Veneto, oppure La metamorfosi di Giorgio Barberio Corsetti, produzione del Teatro di Roma al debutto su Rai 5, o ancora agli appuntamenti video di backstage o letture sceniche messe in atto dal Centro Teatrale Bresciano con R-esistenze teatrali; solo per fare qualche esempio. In realtà tutte queste esperienze pongono altri interrogativi, sono più un tentativo mediato e mediatico di persistere e resistere nel fare teatro, in attesa di… ritornare in sala.
Pare – invece - interessante affiancare due esperienze diverse per genesi, se pure affini, in cui la centralità del corpo e del linguaggio assumono un valore che sembra far presupporre al desiderio di trovare negli spazi offerti dal web luoghi autonomi di creatività, non solo un mezzo, ma un linguaggio chiamato a interrogare l’artista e lo spettatore al tempo stesso. Per questo motivo si è scelto di prendere in esame le presentazioni dei lavori di Anghiari Dance Hub del Centro di produzione per la danza e la Settimana delle Residenze Digitali, nata dal bando delle Residenze Digitali: un progetto del Centro di Residenza della Toscana (Armunia - CapoTrave/Kilowatt), in collaborazione con AMAT e Anghiari Dance Hub, in partenariato con ATCL, Spazio Rossellini, e il tutoraggio delle studiose Anna Maria Monteverdi e Federica Patti. I due progetti sono in un certo qual modo connessi, ma il primo interroga la danza e il corpo in rapporto allo spettatore da remoto, il secondo percorso è un affondo nella (im)possibilità di usare i linguaggi del web come ambiente performativo dello spettacolo dal vivo.

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Golden Hour di Silvia Oteri

Anghiari Dance Hub
Il tempo di accendere il computer, di collegarsi alla piattaforma Zoom e immediatamente le distanze sono annullate e ci si ritrova nel teatrino di Anghiari per assistere ai quattro lavori coreografici di altrettanti artisti Jari Boldrini con Giulio Petrucci, Giorgia Fusari, Giorgia Lolli, Silvia Oteri che sono stati accompagnati, dal 7 settembre, in un percorso di creazione nell’ambito del quale hanno avuto la possibilità di confrontarsi con esperti di diversi settori - Marigia Maggipinto per il lavoro sull’interpretazione, Guy Cools per la drammaturgia della danza, Matteo Fargion per la relazione con la musica, Michele Di Stefano per la composizione coreografica, Gianni Staropoli per il disegno luci - che, attraverso seminari di gruppo e incontri specifici, hanno messo a disposizione le proprie conoscenze e il proprio know how con l'obiettivo di supportare la realizzazione dei singoli progetti coreografici. Golden Hour di Silvia Oteri, Evento di Petrucci/Boldrini, Scritto in tre C di Giorgia Fusari, Eufemia di Giorgia Lolli vivono di una tensione simile e che chiede al disegno coreografico di relazionarsi con lo spazio in cui si compie: la scena del teatro di Anghiari ma anche con lo sguardo dello spettatore che spazia sui corpi ripresi. I tratti coreutici appartengono a quel contemporaneo stilizzato e codificato che contraddistingue tanta danza contemporanea italiana, non quella dell’ultima generazione (Collettivo Cinetico, Nicola Galli, Alessandro Sciarroni), ma piuttosto quella che ha assunto i Virgilio Sieni, gli Enzo Cosimi, i Giorgio Rossi e i loro epigoni come possibili maestri o punti di riferimento coreutico. Detto questo, ciò che colpisce e ha colpito è la fruizione da remoto, la sensazione (solo suggestione?) di una prossimità non solo visiva, di una trepidazione, di una naturale e spontanea emotività mimica che passa il video e arriva allo spettatore. I tre lavori risentono o forse semplicemente sono l’esito e la naturale espressione di un lavorare in isolamento, di un lavorare e creare in una bolla in cui i corpi e i movimenti sembrano cercare una loro via di uscita, un possibile pertugio per un contatto all’esterno. Sono l’oro squillante, ma il cui bagliore non è per nulla rassicurante in Golden Hour, piuttosto che la sfida a due nello stare nello spazio di Evento che fanno del movimento un segno di resistenza ed esistenza che arriva a tratti ripiegato su se stesso, a tatti desideroso di spiccare un volo che s’interrompe e chiede meno slancio e meno vertigine, destinato a rimanere lì: nello spazio del palco di Anghiari e nei confini rettangolari dello schermo del tablet. Scritto in tre C ed Eufemia condividono il respiro di un danzare a tre in cui varianti e invarianti, l’armonia del due si frange nell’inserirsi del terzo corpo. I due pezzi coreografici giocano su ritmo e variazione di ritmo in un procedere (inconsapevole?) per certi versi speculare. Anche in questi rilievi ci si chiede quanto ciò sia condizionato dalla mediazione video, dalla parte per il tutto restituita dalle riprese, dall’ovvio affidarsi dell’occhio dello spettatore al movimento della camera. Eppure in tutto questo, malgrado tutto ciò si avverte una libertà di sguardo, una complicità di scambio che vive – sottile, impalpabile – nella consapevolezza di essere tutti lì, ora, presenti, in un legame da remoto ma che si propone e si racconta come legame fra chi danza ad Anghiari e chi è seduto alla scrivania davanti al computer. È questa strana sensazione che ci si porta via dalle serate di Anghiari Dance Hub, ospiti di un fare coreografico che si è formato in una bolla di incontri e seminari laboratori e che in una bolla (mediata e mediatica) si è concluso, in una condivisione alla distanza, ma non priva di prossimità emotiva. Solo suggestione? Forse… oppure nel rito del collegarsi, dell’invito Zoom, del essere lì nello stesso tempo c’è qualcosa di più di una semplice diretta streaming?

La Settimana di Residenze digitali
Diverse sono le premesse che hanno dato vita alla Settimana di Residenze digitali, nata dal bando delle Residenze Digitali: un progetto del Centro di Residenza della Toscana (Armunia - CapoTrave/Kilowatt), in collaborazione con AMAT e Anghiari Dance Hub, in partenariato con ATCL, Spazio Rossellini. Il progetto, nato durante il lockdown di marzo e aprile, ha interrogato la comunità artistica sullo sviluppo di lavori pensati per l’habitat digitale, al fine di coinvolgere gli spettatori nel web, sperimentando nuove forme di creazione e di fruizione del teatro e della danza. Al bando lanciato in primavera hanno partecipato 398 compagnie da tutta Italia e dall’estero, ma sono sei i progetti selezionati, che sono stati finanziati e seguiti con attenzione dagli enti promotori nel corso dei passati cinque mesi, e che saranno presentati durante questa settimana, come esiti del processo di residenza artistica: Olympus: Prometeo di Agrupación Señor Serrano, K di Illoco Teatro, Anatomies of Intelligence di Umanesimo Artificiale di Filippo Rosati / Joana Chicau e Jonathan ReusShakespeare Showdown – With a Kiss Die di EnchiridionIsadora - The Tik Tok Dance Project di Giselda Ranieri e Simone Pacini, oltre a Genoma scenico | dispositivo digitale di Nicola Galli, presentato in anteprima a inizio novembre. Questa è la cornice all’interno della quale ci si muove con la curiosità di capire come e se l’ambiente digitale possa diventare un ambiente creativo – sicuramente - ma quanto questo possa avere a che fare con le arti performative dal vivo è un interrogativo a cui non sembra facile rispondere nell’immediato, perché si è al cospetto di una sperimentazione tutta in fieri.
Con il ciclo Olympus: Prometeo della compagnia spagnola Agrupación Señor Serrano, costituita da Àlex SerranoPau Palacios e Barbara Bloin, si assiste al primo tassello di una serie dedicata alla rivisitazione e rilettura dei grandi miti dell’antichità. Chi è Prometeo oggi? quanto il mito prometeico può essere avvicinato ad Assange, quali sono le figure prometeiche del nostro presente? Interrogativi questi che Pau Palacios condivide con un gruppo di piccoli spettatori di sei agli 11 anni, collegati via Zoom, chiamati in causa dal narratore, chiamati a una partecipazione attiva dal video. La storia di Prometeo e le sue declinazioni nella contemporaneità trovano corpo in un racconto in cui le figurine di Lego animano la vicenda di Prometeo, colui che regalò all’uomo il fuoco e la possibilità di competere con gli dei. Tutto questo accade con la tecnica figurale che la compagnia spagnola domina con grande fluidità. Per ammissione dello stesso narratore Prometeo è un work in progress, la stessa scrittura drammaturgica deve essere affinata, così pure i meccanismi di coinvolgimento dei ragazzi, ma la prospettiva – per ammissione dello stesso attore – è quella di tornare in sala, di dare corpo alla serie Olympus per ora via Zoom ma con la sua destinazione naturale al teatro, quello dal vivo. E se pure l’esperienza di Olympus: Prometeo cerca di dare corpo a un’interazione ma frequenta un linguaggio performativo che ha la sua semantica nello spettacolo dal vivo, con Shakespeare ShowdownWith a Kiss I Die l’obiettivo è quello di costruire un testo autonomo, un videogioco liberamente ispirato a Romeo e Giulietta di Shakespeare, videogioco da posizionare nei foyer dei teatri, quando questi potranno riaprire. Il progetto è ideato da Francesca Montanino, Mauro Parrinello, Matteo Sintucci, del collettivo torinese Enchiridion. Shakespeare Showdown è una riscrittura di Romeo e Giulietta sotto forma di videogioco in cui gli spettatori sono chiamati ad entrare nell’ ‘officina’ artistica per scoprire il mondo dietro alla lavorazione: dai video rielaborati in pixel-art, alle musiche eseguite in live, fino alla scoperta della crew al lavoro sulla progettazione. Il cast è composto da attori digitalizzati quali Alice Giroldini, Celeste Gugliandolo, Matteo Sintucci, Mauro Parrinello con la partecipazione straordinaria di Tindaro Granata, Antonella Questa, Valerio Binasco. Il racconto via Zoom è una testimonianza, è un gioco fra diretta streaming e contributi video in un delicato equilibrio fra trasmissione sincrona e asincrona. Anche in questo caso la prospettiva sembra essere quella della traslitterazione del testo teatrale a testo del videogioco, la testualità dei videogames d’altronde risponde a norme drammaturgiche precise, prese in prestito proprio dalle arti di narrazione oltre che dai giochi di ruolo. Ciò che si è tentato di fare durate le dirette di Shakespeare Showdown è mostrare il work in progress, le fasi di pixelizzazione degli attori, la loro partecipazione autoriale, dando appuntamento a prodotto finito, a videogioco ultimato in cui – sembra di intuire – il teatro entra più per i suoi protagonisti attoriali, per il contesto in cui il progetto si situa che per una reale e autonoma rielaborazione del linguaggio digitale e teatrale a sé bastanti. L’impressione è che tutto si limiti – almeno nelle premesse – ad affiancare i linguaggi, a rivestire il corpo dell’attore di pixel e a fare della scrittura dei videogames – la cui tradizione è non solo consolidata ma ampiamente canonizzato – un pretesto teatrale.
Residenze digitali propone progetti, work in progress e quindi ogni giudizio deve comunque tener conto dello sviluppo futuro, del compimento del percorso ancora al di là da venire. In questo senso si pone anche il curioso tentativo di coniugare la più giovane e disimpegnante piattaforma social, Tik Tok con il linguaggio della danza. Il titolo del progetto è  Isadora – The TikTok Dance Project, ideato dalla danzatrice e coreografa Giselda Ranieri, dall’esperto di comunicazione digitale Simone Pacini e da Isabella Brogi ed Elisa Sirianni. Il progetto è partito quattro mesi fa e si è sviluppato su TikTok, cercando di coinvolgere la generazione Z nella produzione di video di danza contemporanea. L’appuntamento inserito nella Settimana delle Residenze Digitali ha avuto per titolo Cronache di un progetto fuori sync ed è stato pensato come un webinar interattivo: attraverso video, performance live e interazioni col pubblico online, Giselda Ranieri e Simone Pacini, in dialogo con Federica Patti, tutor del progetto, hanno raccontato i punti di forza e i limiti dei 4 mesi di azioni sviluppate sul web. E proprio nel racconto di Giselda Ranieri e nella dimostrazione di una coreografia mimica costruita per utilizzare la semantica della piattaforma Tik Tok si è avuta la sensazione della aleatorietà di un dialogo se non impossibile, per lo meno non immediato, soprattutto nell’esigenza – che è alla base dei social – di una interazione con i tik/toker, senza snaturare l’estetica coreutica di chi agisce e trasferisce la propria creatività dalla tridimensionalità della danza dal vivo, all’immagine costretta in tempi serrati di un narrare mimico che la piattaforma impone.

In-conclusione
Un matrimonio che s’ha da fare? Per necessità, sicuramente, ma una necessità che può diventare virtuosa, può trovare soluzioni nuove, di appoggio, di interazione fra performer e digitale. Si crede che, volenti o nolenti, le esperienze maturate in periodo di lockdown e la sperimentazione che ha portato a tentare di coniugare spettacolo dal vivo e new media rimarranno, anche dopo la riconquista di una normalità più o meno completa. Le interazioni di carattere informativo, la documentazione dei processi, così come la proposta a distanza delle performance, oppure la loro trasmissione in live costituiranno anche in futuro un’opportunità in più, una sorta di ampliamento dell’ambiente in cui proporre, riflettere, condividere i linguaggi della scena. Certo ciò a cui si sta assistendo – e non solo nel campo delle arti – è un ampliamento di opportunità e fruizione di testi, ma questo che influenza avrà sull’incontro dei corpi? Sul bisogno di condividere emozioni e incontri in sala? Sarà un di più, oppure la tecnologia ci permetterà di farne a meno… Dopotutto non lo dicono ufficialmente ma molti ragazzi in età scolare non vedono poi così indispensabile tornare a scuola, la didattica a distanza come trasmissione di nozioni è sufficiente… Ma le relazioni? Dicono i professori e gli attori? Lo scambio dal vivo dove lo mettiamo? E se dovessimo essere i primi ad accontentarci dell’interazione video? Se dovessimo credere o immaginare bastevole seguire dal tablet lo spettacolo, trovarsi a tu per tu con l’attore in una dimensione visuale ravvicinate e intima che coinvolge? E dopotutto Elio Germano con La mia battaglia è in tour con la versione in realtà aumentata. Il monologo – scritto a quattro mani da Chiara Lagani e prodotto da Piefrancesco Pisani – è stato girato in realtà aumentata e può essere proposto in sale dalle capienze anche minime, gli spettatori indossano l’Oculus e la proiezione li catapulta in teatro, il video permette di rivivere la condizione dello spettatore in sala, con la prossimità dei vicini di poltrona, la tridimensionalità dell’attore che arringa la folla… è questo solo un esempio, forse un’eccezione, ma che rende superflua la replica in live e la moltiplica nella sua registrazione 3D affidata all’Oculus… E se la generazione dei ragazzi della dad, delle Play Station 4 considerassero già superflua l’interazione dal vivo, o meglio non distinguessero più la differenza fra relazione dal vivo e mediata, e vivessero i due aspetti alla pari? Il teatro in tutto questo continuerebbe a essere il luogo dell’incontro di corpi, di sguardi e di emozioni? Interrogativi, mutamenti di canale espressivo che rischiano di diventare altro rispetto al quel teatro che manca, che è convocazione magica, è parola incarnata dall’attore e condivisa da un coro di astanti che ride, piange con Amleto sul palco, piuttosto che con Antigone… Noi in questo crediamo, in questo c’è la forza di pensiero del teatro nel suo compiersi irripetibile e mai identico a sé stesso…

Ultima modifica il Martedì, 05 Gennaio 2021 10:27

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