Anagoor ovvero della persistenza della memoria
Incontro con Simone Derai e Marco Menegoni nel ventennale del gruppo
di Nicola Arrigoni
«Papà cos’è?»… Sguardo stupito del tredicenne Stefano e la sicumera del quindicenne, Riccardo che suggerisce: «E’ un disco in vinile… quelli dei tempi del papà». E l’impressione netta è quella di essere collocato fra il paleolitico e il neolitico. E dopotutto quando in tv trasmettono le vecchie partite - possono essere i mondiali del 1982 piuttosto che qualche vecchio match anni Cinquanta - per loro è tutto uguale e il commento è sempre lo stesso: «Quelli erano i tuoi tempi», dicono. Digerita la certezza di essere una sorta di dinosauro scampato all’estinzione, l’LP bianco di Anagoor – non nero come quelli classici – con la scritta MMXX e all’interno un elegante inserto in carta pergamenata con il testo del secondo libro dell’Eneide di Virgilio regala l’emozione di quando si comprava LP del cantautore preferito e il solo scartarlo, il solo maneggiare il disco con le tracce incise avevano qualcosa di rituale. Quelle azioni erano un tutt’uno con l’attenzione con cui si alzava il braccio del giradischi e ci si assicurava che la testina con la puntina cadesse nel punto giusto. Aveva, così, inizio l’ascolto di quella musica che da materia diventava suono. L’LP MMXX di Anagoor ha fatto rispolverare (nel senso letterale del termine) il vecchio Akai in soffitta, con tanto di casse. Posizionato in sala, spolverato, acceso l’amplificatore con lucine e tasti anni Settanta/Ottanta: il rito è lo stesso di quando chi scrive aveva più o meno gli anni dei suoi figli. La memoria si fa materia, si fa suono e assume una persistenza che stupisce e che negli occhi di Stefano e Riccardo riflette un tornare indietro nel tempo, recuperare l’incanto nel maneggiare e far suonare quei dischi in vinile, tracce sonore di emozioni da far risuonare dentro di sé durante l’ascolto.
Nella pandemia il tempo si fa materia. Ed è in fondo questo che sollecita da una parte il LP di Anagoor con i brani di Mauro Martinuz nel primo disco, un viaggio sonoro e linguistico nella lettura/interpretazione del secondo libro dell’Eneide di Virgilio, resa musica vocale dall’interpretazione di Marco Menegoni in Virgilio Brucia. Insieme al doppio LP il volume Una festa tra noi e i morti sull’Orestea di Eschilo, pubblicato da Cronopio, è di nuovo la conferma di un bisogno di materia che si compie nella pubblicazione della drammaturgia dell’Orestea di Anagoor, spettacolo/pensiero che ha debuttato alla Biennale Teatro 2018. Nessuna nostalgia, ma un’esigenza: «di lasciare una traccia, questo al di là del ventennale della nostra compagnia – racconta Simone Derai -. Abbiamo avuto l’esigenza di trovare una forma oggettuale a quanto fatto, dare corpo, segno tangibile al nostro fare teatro». Tutto ciò trova un suo correlativo oggettivo nel doppio disco in vinile che sembra avere il fascino vintage di un oggetto che appartiene a un altro mondo. Ho avuto modo, avevo dodici anni, di apprezzare il particolare fascino che avevano nella loro forma gli Lp. Ci è piaciuta l’idea di legare il racconto di Anagoor alle musiche composte da Mauro Martinez e dare loro una forma materica». L’esperire è un tratto distintivo della storia teatrale e di ricerca di Anagoor, lo è nel dialogo con i classici, lo è nella frequentazione del linguaggio scenico come pedagogia dello stare al mondo, dell’esserci, lo è nella necessità di coniugare lo sguardo filmico con la realtà trasfigurata dall’estetica, ovvero dal sentire pensando. In questo senso va anche l’esperienza – perché questa è – che ha portato alla decisione e alla realizzazione del disco MMXX di Anagoor: «L’aver deciso di dare oggettualità alla musica di Mauro Martinuz pubblicando un long play ci ha permesso di conoscere un mondo produttivo che non conoscevano, di avere un rapporto di dialogo e confronto con gli stampatori, di capire il sapere che sta dietro la produzione di un disco – continua Derai -. In un certo qual modo la musica e l’azione vocale di Marco Menegoni hanno trovato una loro corrispondenza materica, una sorta di realizzazione nell’incisione delle tracce audio». È come se – nel racconto di Anagoor – il fare teatro, il trovare una lingua e un racconto del loro fare teatro nell’arco di due decenni si fosse costruito con rigore e passo dopo passo, in un pro-seguire il racconto che ha voluto dire ogni volta proiettarsi in avanti con consapevolezza, nella consapevolezza che il cammino si compie in una serie consequenziale di movimenti che vengono l’uno dopo l’altro, naturalmente ma non in maniera scontata. Così a chiedere a Derai e Menegoni se vent’anni fa quando è nato Anagoor avrebbero immaginato che la loro compagnia avrebbe vinto il Leone d’Argento e sarebbe diventata uno dei gruppi di punta del nuovo teatro italiano, sorridono e dicono: «Non ce lo immaginavamo certo – raccontano -. Abbiamo ragionato tappa dopo tappa, ogni nostro spettacolo è frutto di quello precedente, è lo sviluppo di una tensione o una necessità di ricercare un dialogo con il tempo che ci ospita». In questo procedere con concretezza e circospezione pragmatica il cuore è dato dalla potenza delle relazioni, dal dialogo fra chi ha ideato e sostenuto Anagoor, in primis Derai e Menegoni che non nascondono e non esitano a sottolineare il loro stupore: «oggi la coesione fra di noi è tale che abbiamo la consapevolezza che il nostro dialogo si è fatto pieno, intimo più di quanto non fosse un tempo. Abbiamo costruito un linguaggio interno alla compagnia che ha un suo esito in quello che facciamo, nelle scelte estetiche, nel nostro raccontare e fare teatro. Non sono mancate deflagrazioni, frizioni, confronti anche accesi. Anche per questo la nostra è una relazione artistica che a tratti ha avuto momenti disorientanti che ci hanno messo in crisi e rimesso in gioco».
Il presente raccontato in diagonale. Che si tratti dell’amato Giorgione, pittore di Castelfranco Veneto, città di cui Derai/ Menegoni ed Anagoor sono figli, oppure dei tragici e dei classici greci e latini, il dialogo con gli antichi è un tratto persistente della produzione della compagnia e del pensiero estetico che la anima. «La ricerca di una auctoritas, gli incontri con gli antichi non hanno voluto dire riproporre le voci del passato, ma piuttosto farle deflagrare perché potessero restituirci una storia non cristallizzata, ma viva, capace di farci leggere il presente in diagonale – spiega Simone Derai -. Ciò ci ha permesso di vivere e dire del nostro presente usando il punto di vista delle nostre auctoritates nel segno di una tradizione che sa essere traduzione, percorso attraverso il tempo presente». In questo dialogo costante col passato che Anagoor ha scelto come tratto distintivo, in questo guardare al passato per leggere il presente non nel segno dell’historia magistra vitae, ma piuttosto nella consapevolezza di un ricorrere dell’errare umano che è inciampare in errori per poi rialzarsi, per procedere in un percorso fatto di intoppi e deviazioni, di illuminazioni e ripensamenti in una direzione che non è unilineare ma è una proiezione, un gettarsi nella vita alla ricerca della pienezza dell’essere. Ed in fondo anche ripensare ai vent’anni di storia della compagnia per Anagoor è pensare a un passato che s’innesta su un presente che Simone Derai e Marco Menegoni sanno affrontare con grande concretezza padana, ma anche vertigine speculativa. «È vero festeggiamo il nostro ventennale – spiegano i due animatori della compagnia veneta -, ma in realtà i primi dieci anni della nostra storia artistica sono stati dieci anni sotterranei, proficui, fecondi in cui abbiamo potuto sbagliare, cambiare direzione, contraddirci, crescere. Siamo cresciuti in stretta connessione col territorio e la cultura dei luoghi in cui siamo vissuti e continuiamo a vivere. Questo ci ha permesso di irrobustirci prima di venire alla luce, approdare alla ribalta nazionale. Questo percorso ci ha reso più forti, ci ha permesso di guardarci dentro con maggiore profondità e anche, alla fin fine, consapevoli di noi, leggere con la giusta distanza anche critiche ed elogi nel momento in cui si è cominciato a frequentare una ribalta di carattere nazionale». L’anniversario del ventennale assume i toni di un rito di passaggio, una data che racconta una maturità ma non dice di una meta raggiunta e in Derai e Menegoni non c’è volontà di autocelebrarsi, di tracciare un itinerario di quanto fatto, piuttosto si avverte la volontà di mettere alla prova le scelte fatte e la decisione di investire sulla casa.
Investire sulla casa. «Fare una casa in campagna è stata una scelta che ci ha sottratto dalle seduzioni delle capitali del teatro e forse ci ha costretti a tempi più lunghi per approdare alla ribalta nazionale – afferma Marco Menegoni -. Tutto ciò si è concretizzato nella nascita della Conigliera, luogo dello stare e del creare che per la compagnia è stato un forte investimento nel segno della stanzialità, ma non dell’immobilità. Questa scelta che era anche un’esigenza di radicamento in un territorio in cui siamo cresciuti ci ha permesso di essere quello che siamo oggi, ci ha permesso di sperimentare, di provare, ci ha dato il lusso di una continuità d’azione nel tempo e nello spazio. Io e Simone ci siamo formati negli anni Novanta in cui il binomio teatro e territorio inteso anche come recupero memoriale dei luoghi era fortissimo. Pensiamo al Vajont di Marco Paolini. A questo contesto territoriale si affiancava una modalità di racconto che aveva nel monologo di narrazione il suo veicolo di veridicità per l’emersione di memorie civiche e territoriali. I laboratori di Teatro Settimo di Gabrile Vacis sono stati fondanti per noi, così come l’incontro con Laura Curino e il teatro di narrazione. Determinate è poi stata la collaborazione con Centrale Fies e la Factory, determinante è stato l’incontro con Barbara Boninsegna. E ancora, anche nel contesto di Fies, è la casa a ritornare, il luogo dove stare per ripartire, ancora una volta è l’essere insieme. Detto questo, da qui siamo partiti. Di queste vicende abbiamo fatto tesoro e abbiamo sviluppato il senso di coralità».
E quando Menegoni parla di coralità il riferimento va non solo alla natura multipla e di gruppo della compagnia, ma si crede possa interessare anche una comune koiné che dai grandi miti della classicità ha portato Anagoor a lavorare nel cuore dell’Europa e interrogare il mito di Faust, piuttosto che la figura di Mefistofele, oltre che confrontarsi col la tradizione barocca e prima ancora – nel segno di un appartenenza territoriale – con l’arte di Giorgione. Ma non si intende e non si vuole qui fare un excursus della produzioni dei vent’anni di Anagoor si vorrebbe fare di più: individuare il pensiero, l’investimento sulla casa dell’essere fatta da Anagoor, ovvero il linguaggio. E allora in questa disanima senza anima e corpo spettacolare di un tempo sospeso e pandemico l’agire scenico di Anagoor si nutre di comuni linguaggi, quelli della classicità, l’elaborazione multicodica dell’esperienza del teatro musicale barocco, lo sconfinamento nel melodramma con i miti della modernità, Faust e Mefistofele fino ad arrivare all’ultima produzione, Germania, liberamente ispirata al testo di Tacito, realizzata col Theater and der Ruhr, istituzione teatrale tedesca che non è un caso, forse, ha fatto del dialogo col territorio un suo punto di forza, senza per questo ripiegamenti localistici, una tradizione che dura da oltre quarant’anni.
In questo senso investire sulla casa per Anagoor è anche un modo per immaginare un altro modo di fare teatro, di pensare teatro, immaginazione resa necessaria dallo stop imposto dalla pandemia che per il gruppo di Castelfranco Veneto non ha comunque voluto dire stasi. «Sarebbe bello che quando tutto sarà finito, si ripotrà avviare la macchina teatrale, tutto non torni come prima – commenta Simone Derai -. La pandemia è arrivata a fermare drammaticamente tutto un sistema, non solo teatrale, per dare tempo pur nel dolore della condizione che stiamo vivendo di ripensare il nostro modo di fare, l’eccessiva produzione, spesso esorbitante rispetto alla domanda. In questo le realtà come il Theater and der Ruhr dicono di una stanzialità non solo di attori e maestranze tecniche, ma di un operare al di là dell’evento, dello spettacolo, un coesistere con la comunità in cui il teatro è inserito, spazio di ritrovo e di raccordo, luogo di idee, di pensieri, di racconti che aiuta a intessere rapporti con il pubblico, un dialogo reale che poi si riflette nella consapevolezza di sé che può avere la comunità». Ed è dunque ancora la casa come spazio aperto, di stanzialità ma non di isolamento che perdura nella poetica e politica di Anagoor, giovane ventenne di consolidate speranze.