ENNIO Regia di Giuseppe Tornatore
Psicanalisi a parte, è dai tempi di “Quarto potere” di Welles (ed anche “Marnie” di Hitchcok) che cinefili e gente di cinema hanno acquisito la cognizione di evento traumatico, di esperienza infantile (o adolescenziale) condizionante –volenti o nolenti- il resto della vita: ciascuno a suo modo.
Come per Foster Kane (lo scopriremo solo alla fine), il magnate reinventato dal grande Orson, ossessionato dal ricordo dello slittino Rosabelle, unico ‘oggetto’ che non potrà ricomprare-e senza che il particolare venga poi enfatizzato- anche “Ennio”, con pudore e discrezione, ‘mostra’ (non indugiandovi) l’accadimento che segnò e motivò la carriera, la ferrea volontà, la dedizione al lavoro del M.stro Morricone.
Allorchè da ragazzo, studente al Conservatorio e dotato di una certa autostima, si vide costretto, in anni di guerra, a suonare per taverne ed osterie al solo scopo di “darsi da mangiare”. Il giovane Ennio, pur soffrendone, non se ne lasciò mortificare, ulteriormente determinato nel dare alla sua professione un diritto alla priorità, all’assolutezza (venata di qualche ironia) superata forse dai doveri indissolubili che lo legarono alla famiglia e alla amata moglie sino alla fine dei suoi giorni.
Giuseppe Tornatore ha collaborato con Morricone – (“e non viceversa”) due occasioni di rilievo- Nuovo Cinema Paradiso (1988) a La corrispondenza (2016)- frequentandolo in compenso per circa trent'anni.
Nel naturale approdo di "Ennio. Un maestro" (edizioni Harper Collins), un volume che è oggi film di documento in cui i due amici parlano “di tanto e di più”, con ovvia predilezione per il cinema. Che affrontano e rigirano da ogni parte “per capire cosa sia stato, cosa sia oggi e che futuro abbia”-e se lo avrà- considerandolo con occhio sia da cineasti, sia da fruitori comuni, ma appassionati alla materia in ogni fase del suo ì realizzarsi. Cosi nel libro, così nell’immagine Morricone e Tornatore intrecciano opinioni, racconti, aneddoti, sensazioni.
Ogni tanto sembra che i loro ruoli si invertano. “Tornatore cerca una sua musica delle immagini, Morricone una misteriosa visibilità dei suoni”-annota l’editore.
Come si dice in questi casi “l’intervista è fluviale” e “la conversazione franca, a trecentosessanta gradi” in Ennio, contornata e supportata da una schiera di musicisti, registi, colleghi di viiaggio (da Verdone ad Argento, da Malik a Tarantino), impegnati per lo più a “capire” e “carpire” il segreto di un musicista irripetibile che ondulava, con la medesima serietà, dagli arrangiamenti anni sessanta, dagli evergreen d’epoca (“Abbronzatissima”, “Sapore di sale”, “Il barattolo”, “I Watussi”, “In ginocchio da te”) alle lezioni contrappunto e melodia, laddove Stravinskij sembra ‘duettare’ con il Quartetto Cetra. Nel rispetto, nella rinnovata ‘curiosità’ per di entrambi- con sortite arditissime verso l’esperienza dodecafonica. Non per bulimia, esibizionismo, fremito di prestazione, ma solo per il piacere di “esprimersi” nei mille linguaggi della musica.
Inizialmente identificato “per le invenzioni strumentali e rumoristiche dei western di Sergio Leone”, Morricone visse serenamente e intensamente amareggiato solo dal pregiudizio che l’ambiente accademico nutriva nei suoi confronti (specie dopo l’affermazione tardiva ai Premi Oscar).
Schietto, fraternamente complice dunque non reverenziale, “Ennio” è in sintesi un “film d’autore” dedicato ad “altro autore”, affidato ai canoni del docu-film con finalità squisitamente cognitive e divulgative, la cui narrazione –anche grazie al sapiente montaggio di Quaglia e Squillaci- ha il merito di destreggiarsi, come pentagramma e partitura musicale, fra citazioni filmiche e tracce di vita vissuta. Intensamente.
BELFAST Regia di Kenneth Branagh
Nella capitale irlandese, alla metà di agosto del 1969, divampa - come la macrostoria tramanda- una funesta rivolta diretta alla minoranza cattolica. Complesse (con ‘ambizioni’ egemoniche, insufflate da interessi geopolitici) le ragioni per le quali un gruppo di estremisti protestanti mette a ferro le strade, i quartieri abitati dagli ‘avversari’. Fra i quali, Kenneth Branagh, in vena autobiografica (a tratti radente l’idealizzante elegia), rende emblematica la famiglia di Buddy, in un intreccio di evocazioni che ricompongono i mesi successivi ai primi atti di intolleranza. E qualche cenno alle crudeli evidenze che costrinsero il governo di Sua Maestà ad inviare in loco un folto contingente di truppe per dare protezione ai cattolici e ristabilire l’ordine ex ante. Con tutto il suo carico di provvisorietà, di inabilità a venire
Composito e vivace l’ interno familiare ‘ritrovato’ dall’eclettico autore (lo stesso del recente “Assassinio sul Nilo”): dalla sorella maggiore agli amatissimi nonni, dalla disperata (malmaritata) madre all’inetto papà. Non meno dei primi amori di adolescente e le memorie cinematografiche (la sala di proiezione unica, perenne fuga dalla vita ostile) che rimandano a “Mezzogiorno di fuoco”, “L’uomo che uccise Liberty Valace”, “Un milione di anni fa” – la magnifica ossessione l’ ‘imago’ di Raquel Welch.
Impeccabile sul piano figurativo, ‘reinvantato’ in un bianco e nero grumoso che consegue alle riprese iniziali dell’odierna Belfast, il film alterna coralità ad impatto emotivo, fluida narrazione a gusto della nostalgia e dei primi discernimenti - come se carezzasse i più crudi ricordi di “Voci lontane…sempre presenti” di Terence Davis o si stendesse sul calco di “Anni quaranta” di John Boorman. Senza la pretesa di ‘farsi’ film storico o rivisitazione sentimentale di ciò che fu un’empia guerra civile. La complessità degli accadimenti – semplificata nella faida cittadina- va in soggettiva con gli occhi del ragazzino insofferente, indomito, anche nei suoi momenti di disagio e stupore. Intarsiando un film di formazione dovizioso anche nell’identificazione dei brani musicali (molto Van Morrison) che imprimono l’atmosfera d’epoca