«Sogno che mi sorridi e dici a bassa voce: ti dico un segreto. Gli altri al porto mi dimenticheranno tutti, ma c’è una cosa che puoi fare per non dimenticarmi. Devi imparare a memoria la ricetta di un dolce alle viole». E ancora «Ho sognato una manifestazione del tipo ‘Tutti fratelli’ e il papa che andava in spider su strade tortuose come un ragazzino». Sono i sogni che i cittadini di Ravenna consegnano agli spettatori erranti del Don Chisciotte ad ardere del Teatro delle Albe. Una grafia tradisce tremolante l’età dell’autrice, l’altra ben delineata, in stampatello appartiene sicuramente a un’adolescente. Piccoli foglietti su carta giallognola, consegnati come tesori preziosi in una serata di inizio luglio in cui i sogni diventano ammonimenti, sono l’invito a immaginare un mondo nuovo, a non abbandonarsi alla barbarie. «Perché di questo tratta il romanzo capostipite della modernità, dei sogni a occhi chiusi, che rivelano la nostra notte interiore, e insieme di quelli a occhi aperti, politici, nella piena luce del giorno – afferma Marco Martinelli -: il sogno di cambiare il mondo, di soccorrere gli oppressi, di far fiorire la palma della giustizia». Ed è in fondo questo – viene da pensare a distanza di oltre un mese dalla visione dell’ultimo frutto della chiamata pubblica ravennate – il valore di questo Don Chisciotte ad ardere, prima tappa di un percorso triennale che dopo la Commedia dantesca vede di nuovo Marco Martinelli ed Ermanna Montanari affrontare un’opera mondo per cercare di non arrendersi al mondo in cui viviamo.
"Don Chisciotte ad ardere" del Teatro delle Albe. Foto Marco Caselli Nirmal
Tante le suggestioni, tanta la passione messa in questo lavoro che risponde a una richiesta arrivata dai cittadini come raccontano Martinelli e Montanari: «In più occasioni ci hanno chiesto, dopo il Paradiso, ora dove andiamo?». E il viaggio del Teatro delle Albe ha portato i cittadini a confrontarsi con il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes: «In città non si trovava neppure più una copia. Almeno il nostro lavoro è servito a dare nuova linfa alla lettura di un’opera che tutti dicono di conoscere, ma che in realtà in poco hanno letto». La partecipazione allo spettacolo è emotivamente coinvolgente, Don Chisciotte ad ardere si deposita negli occhi e nel cuore e alla lunga è destinato a fiorire in inattesi pensieri. Alla distanza ci si rende conto che – come sempre per la scrittura di Martinelli – l’opera è un pre-testo, o meglio è il testo in cui s’inseriscono i pensieri sul mondo, in cui Martinelli, il Teatro delle Albe e i cittadini e noi col loro andiamo errando, ovvero alla ricerca – tentando e ritentando – di un senso, di una salvezza laica all’orrore del tempo presente. Un po’ come accadeva a quel cavalier della Mancia che scambiava la contadina Dulcinea per una elegante dama e i mulini a vento per giganti, così accade a noi nei sogni e nel viaggio onirico a palazzo Malagola, invitati da Hermanita (Ermanna Montanari) ad entrare, noi spettatori erranti, chiamati a raccolta, laddove si cuciono i sogni e questi trovano vita in una serie di stanze disseminate per il palazzo. Ci si ritrova, così, ad attraversare «la stanza-campo di grano per giungere nella stanza del cibo impossibile, dove una famiglia seduta a tavola sta mangiando il brodo con il coltello accanto a tre galline rinchiuse in una gabbietta; si sale poi la grande scala dalla lingua rossa che porta al piano superiore e si entra nella stanza dello specchio magico, che prima ci rivela e poi ci oscura l’immagine di due bambine intente a costruire un castello di sabbia; girando su sé stessi si attraversa la stanza del lavoro abbandonato che si apre nella grande sala dell’infermeria di un accampamento di soldati, che a sua volta si apre nella stanza dell’artefice che non riesce a mettere insieme i pezzi, per poi giungere alla fine nella sala dell’alchimia», scrive Martinelli.
"Don Chisciotte ad ardere" del Teatro delle Albe. Foto Marco Caselli Nirmal
Immagini che si fanno spazi abitati dai nostri fantasmi, un labirinto che porta gli spettatori erranti – proprio come il cavaliere della Mancia – a fare il conto con loro stessi e a confluire nel grande giardino/cortile del castello/locanda in cui Hermanita e il mago Marcus accolgono gli erranti. Ed è Hermanita che chiede: «Allora, erranti, cosa avete scoperto nel palazzo incantato? Nella famosa grotta di Montesinos, profonda centinaia di piedi? Siete scesi fino in fondo? Avete cercato bene? È difficile cercare bene. È un’arte. Roba che non va più. Che non ha mercato. Avete trovato voi stessi?». Ed è qui che si fa la conoscenza di Don Chisciotte, del suo scudiero Sancio Panza, e al tempo stesso degli attori che ne interpretano la parte: Roberto Magnani, Alessandro Argnani, Laura Redaelli, Marco Saccomandi, il commissario e Luca Fagioli, una figura che sembra Orson Welles. Racconto e metaracconto sono un tutt’uno: due aspetti che Martinelli calibra con sapienza per costruire l’illusione e spiazzare con la disillusione che è – a tratti – del personaggio e dello spettatore stesso, ma è anche il gioco metanarrativo che intesse l’intero romanzo.
"Don Chisciotte ad ardere" del Teatro delle Albe. Foto Marco Caselli Nirmal
Ciò che va in scena nel cortile della locanda è un confronto serrato fra la natura visionaria di Don Chisciotte e i cittadini di Ravenna, ora contadini, ora il coro dei Marcelli e delle Marcelle, ora i carcerati. Ciò che propone Don Chisciotte ad ardere è il confronto/conflitto fra il visionario Don Chisciotte e la folla, va in scena il meccanismo della fascinazione prima e della sopraffazione del gruppo sul singolo poi, del pensiero dominante su chi la vede differentemente o semplicemente sogna un mondo diverso. Martinelli gestisce con intensità coreutica il gruppo dei cittadini, affida a loro l’espressione della potenza della massa che condanna il diverso, l’eccentrico. Colui che non la pensa come gli altri è destinato a soccombere, ma don Chisciotte si rialza, non demorde, non s’arrende. La drammaturgia di Martinelli gioca con la vicenda del cavaliere di Cervantes e fa di alcuni passaggi del romanzo: come il discorso sulla polvere da sparo un affondo per riflettere sulla contemporaneità, sulle guerre attuali, sull’orrore nostro quotidiano. Martinelli fa agire i personaggi, poi li ferma e commenta, fa esplodere il testo, lo glossa, chiede alle sue tribù di mettersi in gioco, di scrivere i loro sogni e desideri infranti, di urlare la loro rabbia e di ribellarsi a quello strano figuro con un catino in testa e che si crede un cavaliere errante. «E i sogni che avevamo da ragazzi i sogni a occhi aperti, in piena luce, i sogni di cambiarlo questo mondo di farlo più giusto e più bello tutti sognatori come Don Chisciotte oh sì, sarà difficile ma ce la faremo spezzeremo l’incantesimo che tiene il mondo in catene faremo fiorire la palma della giustizia e il cedro dell’ uguaglianza e porte aperte spalancate porte aperte alla Vita di tutti quella Vita che i potenti ci respingono indietro come un insulto o un ragno nella stanza», dice il mago Marcus e ci crede fino in fondo, come Don Chisciotte. Ma poi la maggioranza ha la meglio, all’entusiasmo inziale fa seguito la disillusione, è difficile trasformare la fabula in realtà se non si condivide lo stesso pensiero e allora i libri che quella favola raccontano diventano pericolosi, sono minacce alle nostre certezze e sono atti di libertà per una comunità che chi comanda vuole asservita, pericolosi perché sono grimaldelli che mettono in dubbio il potere e chi lo detiene.
"Don Chisciotte ad ardere" del Teatro delle Albe. Foto Marco Caselli Nirmal
La soluzione è bruciare Don Chisciotte, bastonare il cavalier della Mancia, far prevalere la ragionevolezza sulla vertigine dei sogni e così è un momento, è un passaggio quasi intangibile che porta al rogo dei libri, a buttar nelle fiamme i Vangeli come il Capitale, la Commedia come il Candido di Voltaire e via una sequela di titoli e opere dell’ingegno destinate al rogo perché commenta Hermanita: «Cosa ci fa/ Cosa ci fate lì imbambolà?/ Non le vedete le fià?/ Le fiamme che si alzano in ciè/ Che incendiano il mondo!/ Si comincia sempre così./Si comincia con quattro libretti./Zitti zitti./Un fiammiferino./ Uno zolfanello./ La carta non fa rumore./ Brusar dieci libri./Che vuoi mai che sia?/ Un rogo./ Un rogo sulla pubblica piazza./ Ma sì./Dei fugh./La carta. /Ma chi la vuol più. /La carta./ Nessuno protesterà. /Tanto. /Al macero. Al macero andrebbero quei volumi/ Tanto/ Ve lo domando. /Chi legge?/ Chi ancora legge./ In questa età odiosa. /Così becera e mediopensante. /Come quella che oggi viviamo?/ Nessuno protesterà!/ Ma voi. /Voi erranti. /E voi, Don Chisciotte… Sancio… Dulcinea…Voi non restate lì, fermi./ Incantà./ Non fatevi sedurre!./ Scapì. /Scapì intant ca putì./ Scapì in tal ter!/ Si comincia col bruciare la carta./ Si finisce per bruciare la carne!/ Si comincia con un rogo di libri./ Si finisce con un rogo di donne, uomini, bambini». E il mago Marcus ed Hermanita ci accompagnano fuori dal cortile, dando inizio al nostro viaggio di errabondi e lasciandoci con una inquietudine nel cuore che fa male. Sipario!