«Qui, è come sentirsi a casa»: è una frase che ricorre fra artisti e spettatori nel lungo fine settimana di Centrale Fies Enduring Love, una frase che si distende sui volti in un sorriso aperto, in uno sguardo brillante e nell’abbraccio che arriva istintivo. E non solo perché nel mondo del teatro tutti si baciano e abbracciano. A Centrale Fies accade qualcosa di più, è accaduto nelle giornate d’inizio autunno, ma sfacciatamente estive, di Enduring Love, il regalo che Barbara Boninsegna e Dino Sommadossi con la figlia Virginia si sono voluti fare e hanno fatto ai loro artisti e agli spettatori di Dro, il festival mutante di Centrale Fies che negli ultimi anni ha moltiplicato i suoi momenti di azione performativa, proiettato nella tensione di una permanenza nel tempo e nello spazio delle azioni politiche e artistiche. Non è un caso che nell’ambito di Enduring Love sia stato lanciato il magazine Tell Mum The Spell Worked che nel suo titolo afferma esplicitamente: «Dì alla mamma che l’incantesimo ha funzionato». E dopotutto Centrale Fies nella sua architettura di castello fuori dal tempo è luogo di incantesimi, di energie creative inattese, di incantamenti dell’arte che da oltre quarant’anni nutrono i sogni dei suoi abitanti artisti e spettatori. L’incantesimo è quello dell’amore che non muore fra teatranti e pubblico, fra luogo e artisti, fra curatori e creativi.
Enduring Love ha semplicemente voluto raccontare che le relazioni che si creano in atti d’amore resistono al tempo e portano frutti. Così nella tre giorni di Centrale Fies Alessandro Sciarroni, Marco d’Agostin, Anagoor, Teatro Sotterraneo, Collettivo Cientico, ma anche Mali Weil, Giulia Crispiani, Oht, Emilia Verginelli, Sergi Casero sono stati protagonisti di un ritorno a casa, di cosa voglia dire sentirsi famiglia, sentirsi comunità, di come la centrale castellata di Fies e il centro di ricerca di arti performative creato da Boninsegna/Sommadossi non solo abbiano seminato, ma anche prodotto un raccolto ad altissimo tasso di umanità e d’amore.
Centrale Fies, Sotterraneo - "L'Angelo della storia". Foto Roberta Segata
Per questo si crede che nel riferire del fitto programma della tre giorni lo specifico non sia tanto l’analisi degli spettacoli in sé, quanto il riverbero che questi hanno rispetto al contesto, la loro forza di contagio e la temperatura unica e speciale regalata nella messinscena a Centrale Fies. Al tempo stesso ciò che raccontano gli artisti di Fies – molti di loro trovano nella centrale proprio uno spazio di studio e coproduzione – è un atto d’amore nei confronti del mondo, è un modo per sentirsi in armonia con la realtà, un pensiero di umanesimo planetario. Ciò è evidente e divertente ne L’angelo della storia di Teatro Sotterraneo, un lavoro nato a Fies. Nell’estate del 2019 i Sotterraneo erano in Centrale a studiare, a dare corpo al primo nucleo di quello che sarebbe stato L’angelo della storia, in mezzo la pandemia e una lunga gestazione di un lavoro intenso, potente eppure leggerissimo in cui i Sotterraneo agiscono la nostra coazione a ripetere narrazioni in cerca di un senso, di una ragione plausibile sulla casualità e sul divenire, in cui lo stare al mondo è un definirsi e ridefinirsi continuamente rispetto ai racconti che incontriamo e abitiamo. Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini, guidati dal demone gentile di Daniele Villa, ci dicono che alla fin fine noi sapiens sapiens siamo ancora gli stessi sapiens delle caverne, abbiamo solo affinato gli strumenti della nostra narrazione.
Centrale Fies, Marco D'Agostin - "Gli Anni". Foto Alessandro Sala.
La narrazione è una costante di quanto visto a Centrale Fies Enduring Love, una narrazione che unisce il particolare all’universale, l’io al noi. Accade questo nel lavoro di Marco D’Agostin, Gli Anni con Marta Ciappina in cui a fronte di una versione aurorale dove i dati biografici della performer emergono come indizi per ricostruirne l’esistenza e il sentire adolescenziale come sulla scena di un delitto chiamato vita, il lavoro nel tempo ha trovato un suo sviluppo in levare che forse gli ha tolto in chiarezza, ma ha intensificato l’apporto coreutico e interpretativo di Ciappina danzatrice, corpo di intensità algida, segno nello spazio, respiro che si muove con grande energia emotiva proiettata sulla platea.
Centrale Fies, Alessandro Sciarroni - "Save the Last dance for me". Foto Roberta Segata.
Questa proiezione emotiva è palpabile e potente in Save the last dance for me di Alessandro Sciarroni con Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini alla prova con i passi della danza bolognese Polka, forma coreutica in via d’estinzione che Sciarroni ha fatto propria in un atto performativo che vive di dettagli e di energia. I due danzatori costruiscono una sintonia che cresce pian piano con il crescere del ritmo e del movimento, l’abilità dei danzatori si riflette negli sguardi e nei sorrisi che i due si scambiano, mimica che si fa contagiosa e che dialoga con gli sguardi degli spettatori, nel segno di una coralità che emoziona e costruisce un unico corpo senziente che gira intorno come i due ballerini. Sono gli sguardi, la leggerezza e la voglia di mettersi alla prova, le corrispondenze invisibili di amorosi sensi e la crudeltà sottesa nelle prove da affrontare che coesistono nei lavori portati in scena da Collettivo Cinetico, Dialogo terzo: in a landscape e How to destroy your dance. Si tratta di due lavori ‘storici’ di Collettivo Cinetico, due lavori diversissimi che pure raccontano di corpi che si mettono in dialogo, che cercano relazioni e ancora una volta corpi che guardano e chiedono di essere guardati, sguardi che si incrociano fra i danzatori e con gli spettatori. In Dialogo terzo: in a landscape l’armonia costrittiva dell’hula hoop e l’ispirazione offerta dal brano di John Cage In a landscape che dà il titolo allo spettacolo danno corpo danzante a una relazione dolce e inquietante con lo spettatore che osserva e spia. In How to destroy your dance il gioco a superare il limite dei danzatori performer diverte e inquieta e trasforma la platea in una sorta di voyeur un po’ sadico, regalando una divertita e colpevolizzate inquietudine.
Centrale Fies, CollettivO CineticO & Alessandro Sciarroni – "Dialogo Terzo IN A LANDSCAPE". FotoRoberta Segata.
Narrazione e coralità sono i tratti distintivi dell’amore duraturo di Centrale Fies, lo è nel lavoro di narrazione e autofiction di Sergi Casero Nieto in El pacto del olvido, un viaggio nella memoria familiare, nel passato della nonna del narratore, nel delicato meccanismo di rimozione del passato recente della Spagna post-franchista. El pacto del olvido è un contributo alla consapevolezza della storia, alla sua narrazione o all’oblio con essa connesso, alla selezione della memoria, all’amnesia istituzionalizzata nei confronti della dittatura franchista e della connivenza col regime.
Centrale Fies, CollettivO CineticO – "How to destroy your dance". Foto Alessandro Sala.
In questo racconto che dal singolo arriva al molteplice, dall’io si estende al noi, dal passato tracima nel presente, in questo raccontare per esistere piace porre Ecloga XI un omaggio presuntuoso alla grande anima di Andrea Zanzotto di Anagoor, compagnia che procede con determinata ossessione la sua poetica che da Giorgione della Tempesta, dai campi del Veneto ubertoso, dagli allevamenti intensivi scaturisce per dare corpo a visioni di elegante inquietudine, moniti feroci. e algidi al tempo stesso, che guardano al nostro lungo discendere verso un (in)consapevole cupio dissolvi. La poesia di Zanzotto dialoga con la Tempesta di Giorgione, in mezzo a fare da messaggeri, anghelos Leda Kreider e Marco Menegoni che danno voce alle parole di Zanzotto in un dialogo feroce in cui il semplice atto di cancellare il paesaggio della Tempesta di Giorgione senza figure umane racconta di un annientamento progressivo dell’ambiente in cui viviamo, ma forse anche dell’identità culturale cui apparteniamo. In Ecloga XI c’è forte e assoluta la forma estetica che Anagoor ha trasformato in discorso, c’è l’attenzione alla parola che si completa nell’immagine di Mephistopheles, lungometraggio che assomma i video utilizzati dalla compagnia in molti spettacoli a compimento di un discorso sulla ferita del paesaggio, su un’antropizzazione che fiacca l’esistente e procede verso una sorta di autodistruzione. È in questo j’accuse iconico che Anagoor si fa teatro civile e politico, ma soprattutto esperienza poetica che chiede poetando di agire, di non restare indifferenti all’orrore di animali macellati che diventano pezzi di carne, paesaggi snaturati che si trasformano in geometriche visioni produttive, il tutto per voce della poesia di Zanzotto, agita nella voce e nel corpo da Menegoni e Kreider sacerdoti di un rito a cui si assiste con abbacinato stupore.
In tutto questo l’amore che dura e perdura ospitato nel castello teatrale di Centrale Fies sembra essere la chiave di volta, la soluzione per una reazione poetica e civile alla barbarie che ci assedia.