domenica, 08 settembre, 2024
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NIGER ET ALBUS: GLI ACROMATISMI DELLA SCENA CONTEMPORANEA. BIENNALE TEATRO FRA CRONACA E GRANDI CLASSICI. di Nicola Arrigoni

"Blind runner", Amir Reza Koohestani. Foto Benjamin Krieg "Blind runner", Amir Reza Koohestani. Foto Benjamin Krieg

Niger et Albus, nero e bianco, la notte e l’alba. Il teatro è passaggio dal nero al bianco. Nel nero della sala si cerca di mettere in luce ciò che l’oscurità ci nasconde, ciò che non possiamo o non vogliamo vedere. Il binomio Nero e Bianco che ha caratterizzato l’ultimo anno di direzione di Biennale Teatro da parte di Stefano Ricci e Gianni Forte, sembra andare al cuore del teatro: fare luce sulle tenebre, cercare un’alba possibile nella notte dell’anima. Ed è questo il racconto sotterraneo che attraversa molti degli spettacoli, tasselli di un discorso unico legato ai bagliori di verità che emergono dalle tenebre. Cronaca e grandi capolavori della drammaturgia si intrecciano, docu-drama e intimità postborghesi sono un tutt’uno, denuncia sociale e inquietudini individuali convivono nel teatro in bianco e nero dell’ultima Biennale di ricci/forte.

A questo si aggiunga la persistenza con cui emerge il desiderio di svelare l’artificio teatrale, quasi a voler sbugiardare il rito di finzione che ci pone di fronte a inaudite verità. In Blind Runner di Amir Reza Koohestani la cronaca viene trasformata in pensiero su libertà, voglia di fuggire, atto di responsabilità nei confronti del proprio Paese, morte travolta dal treno sotto il tunnel della Manica, attraversato di corsa per una vita migliore. Palcoscenico vuoto, un uomo e una donna, marito e moglie, lei in prigione perché oppositrice del regime, entrambi maratoneti. La corsa misurata all’interno del carcere, la corsa come simbiosi di coppia, stesso respiro, stesso battito del cuore, stesso ritmo. La storia procede su tre livelli: la riflessione della donna richiusa nel carcere e la cadenza degli incontri settimanali col marito che finiscono col rendere i due estranei, l’allenamento del marito per la competizione olimpica di Parigi e l’amicizia con una ragazza cieca. Koohestani porta avanti i tre livelli di racconto parallelamente, una narrazione in cui senso di impotenza e voglia di riscatto si intrecciano e trovano la loro chiusura nella corsa di quei 48 chilometri di tunnel della Manica da percorrere prima del transito del primo treno del mattino. Buio, niger in corsa verso un’alba impossibile. 

1688553564 Biennale Teatro la cenere e le conseguenze dellamore di Fortin
Cenere di Stefano Fortin

È il buio che contraddistingue Cenere di Stefano Fortin, vincitore della Biennale College Drammaturgia under 40, presentato in una mise en espace firmata da Giorgina Pi. Il testo diviso in tre quadri e un prologo è un racconto che sente o risente di echi amletici e kafkiani, che costruisce in una sorta di kammerspiele l’incubo di una violenza e di un’ansia relazionale che ci coinvolge, ci attanaglia e ci rende impotenti. Regista interno all’azione/racconto è Valentino Mannias, il prologo che interroga il pubblico, che dice del cadere lento della cenere, di quel pulviscolo grigio che copre tutto, facendo riferimento all’eruzione nel 2010 del vulcano islandese che ebbe ripercussioni su tutti i viaggi aerei. Ma basta questa suggestione per richiamare alla memoria l’eruzione del Vesuvio e la distruzione di Pompei, la riflessione di Lucrezio, quella di Leopardi nella Ginestra e via discorrendo. Eco letterarie che accompagnano un avvio ironicamente apocalittico, in un gioco di dentro e fuori della narrazione che si affianca ai tre quadri di cui si compone il testo: No, Qui e Tutto. In No due genitori chiamano inutilmente il figlio in camera sua per fare colazione. Il riferimento è alla Metamorfosi di Kafka. Nel secondo un poliziotto deve avvertire della morte del figlio i genitori, bloccati nel loro rientro a casa. Il terzo quadro è il racconto di un diciottenne, una vittima di sé e dell’insopportabile stare al mondo di una generazione stritolata fra presente e mancanza di futuro. In Cenere persiste potente e assoluto un senso di opprimente solitudine che Giorgina Pi sa ricostruire con assoluta e spietate precisione, affidandosi a un tappeto sonoro tanto incisivo, quanto inquietante e a una recitazione secca, senza fronzoli che oltre al citato Mannias, Sylvia De Fanti, Gimpiero Judica, Francesco La Mantia, Alessandro Riceci, Giulia Weber, Valerio Vigliar, Cristiano De Fabritiis sanno restituire con rigore. Non c’è speranza sotto la cenere come senza speranza in un futuro trascorso definitivamente è l’azione delle Tre sorelle di Muta Imago.

tre sorelle copia
Tre sorelle di Muta Imago

Uno spazio in cui le tende sullo sfondo identificano un interno, una stanza di una casa più ampia. Eppure la sensazione è quella di una sorta di giardino zen in cui le tre sorelle cechoviane, interpretate da Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli, sono coetanee, sono un tutt’uno. All’alzarsi del sipario l’una abbracciata all’altra danno vita a una sorta di rito con le mani illuminate da un fascio di luce e finiscono col ricordare le tre streghe del Macbeth, cariche di presagi per un’infelicità annunciata. Claudia Sorace e la drammaturgia di Riccardo Fazi asciugano il testo cechoviano, portano l’azione o la non-azione in un passato trascorso, in un continuo flashback in cui le voci dei personaggi maschili sono ricordi, dialoghi nella mente delle tre sorelle. Il tornare a Mosca è un miraggio, lo stare una condanna, l’impossibilità di partire veramente, di trovare una propria vita e soprattutto la felicità la condizione in cui vivono Olga, Masha e Irina. Le Tre sorelle di Muta Imago si compie in un racconto fatto a posteriori. Il testo è asciugato e reso assoluto nel corpo e nella voce delle tre interpreti. Tutto questo viene agito con grande intensità recitativa e soprattutto fisica che cerca di attenuare il senso di ripetizione dei concetti che inevitabilmente – asciugata la narrazione – si ripropongono col rischio di un andamento in loop che alla fine tradisce una difficoltà di sviluppo del plot. In questo gioco al sottrarre elementi sia narrativi sia descrittivi le Tre sorelle di Muta Imago ha il suo maggior pregio e il suo maggior difetto. È come se si assistesse a un interessante videoclip che ha sforato nei tempi, pur volendo restituire emotivamente e con sintesi il nucleo di pensiero dal testo. 

Elektra Unbound
Elektra Unbound di Luanda Casella

In fondo è quello che accade anche per Elektra Unbound di Luanda Casella un gioco di specchi e rispecchiamenti che legge la tragedia di Elettra e il suo dolore come metafora di una sorta di famiglia disfunzionale in cui si riflettono gli attori, la regista Lua, il suo feroce assistente Lucius, la ragazza che aspira al ruolo di protagonista che vuole tante cose ed è sopraffatta dal suo troppo desiderare. Si assiste a una messinscena molto pop, affidata a un gioco metateatrale che spiazza, che offre sul piatto un racconto che senza soluzione di continuità: intreccia l’Orestea – con illuminanti sintesi affidate alle scritte sul fondale che fungono da coro – con la contemporaneità. Il gioco è divertente, le battute feroci, i toni esagerati e kemp. Elektra Unbound o lo si accetta in toto o lo si rifiuta. Non c’è via di mezzo come non c’è via di mezzo per il dolore dell’eroina tragica e non c’è via di mezzo neppure per la voglia di successo, di protagonismo degli attori, per la regista Lua destinata a morire, cigno nero di un Lago dei Cigni tragico e comico al tempo stesso che si compie con sfacciata esagerazione e impudica voglia di provocare e far esplodere il tragico. Ed è questo che ha cercato di fare l’acromatica Biennale Teatro 2024, individuare nel nero bagliori di bianco, forse si luce che a tratti illumina ma anche abbaglia, ripiombandoci nelle tenebre. E questo il teatro fa: illuminare il nero della sala per invitarci a guardare l’abisso che è in noi. 

Ultima modifica il Venerdì, 19 Luglio 2024 11:42

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