di Giuseppe Verdi
Opera in quattro atti di Antonio Ghislanzoni
Nuova produzione
REGIA, SCENE, COSTUMI, LUCI, COREOGRAFIA Stefano Poda
ASSISTENTE ALLA REGIA Paolo Giani Cei
DIRETTORE Marco Armiliato
IL RE Abramo Rosalen
AMNERIS Clémentine Margaine
AIDA Monica Conesa
RADAMÈS Luciano Ganci
RAMFIS Alexander Vinogradov
AMONASRO Youngjun Park
UN MESSAGGERO Riccardo Rados
UNA SACERDOTESSA Francesca Maionchi
Orchestra Coro Ballo e Tecnici
della Fondazione Arena di Verona
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Coordinatore del Ballo Gaetano Petrosino
Verona, Arena di Verona, 29 giugno
quarta rappresentazione
E' di qualche utilità produrre una recensione per una replica di uno spettacolo evento su cui si è scritto e parlato tanto? Certamente l'Aida verdiana nell'allestimento del regista Stefano Poda, all'indomani della serata inaugurale della stagione centenaria del Festival dell'Opera in Arena, ha suscitato molteplici commenti e perplessità. Stefano Poda non è un regista facile da comprendere, molto ideologico e simbolico, astratto e monumentale al tempo stesso. Cattura lo spettatore con effetti speciali quali che siano costumi, da lui stessi creati, oggetti di scena che diventano strutture di una modernità concettuale, incastri architettonici di luci laser che definiscono spazi con un ricco significato simbolico ed evocativo di non immediata comprensione, che trovano una spiegazione con una attenta lettura dell'opera e istruzioni dell'uso da parte del regista stesso. Destinata a sostituire gli allestimenti revocativi di un Egitto falsamente storico di Ettore Fagiuoli/Gianfranco de Bosio e quello immaginifico e luccicante di Franco Zeffirelli, questa nuova produzione non ha suscitato grandi entusiasmi tra chi si sentiva orfano della monumentalità evocativa di un Egitto ricostruito tra piramidi, sfingi e simulacri di faraoni e chi propendeva verso una contemporaneità che si facesse portavoce del politicamente corretto, bandendo così le polemiche sul black face di Aida, perseguendo aggiornamenti di cronaca, attualizzazioni e quant'altro. Eppure gli elementi di un Egitto antico rievocato da una modernità astrattiva c'erano tutti: deità della morte e della violenza rappresentato dalla sfilata delle maschere che raffiguravano Thot da becco adunco, Anubi e Seth dalla testa di sciacallo, Bastet in forma di gatto alle quali evidentemente la regia affidava una propria specifica simbologia non fine a se stessa, come i flabelli sostituiti da mani bianche con occhio di Horus o da mani meccaniche a modo pugno chiuso, i costumi costruiti su tute con geroglifici. Come non fine a se stessa era l'immagine dalla sfera argentea che, riflettendo fasci laser, riproduceva il grande simbolo del sole del dio Aton, garanzia di vita per tutte le creature, come la piramide tombale, stile Louvre, dell’ultima scena. Un dualismo di elementi che come sottolinea il regista nell'intervista rilasciata per libro di presentazione della stagione areniana, sottendono l'eterna lotta tra la vita e l'istinto di estinzione. Fin qui tutto è chiaro. Poi diventa tutto di difficile comprensione: la grande mano in reticolo metallico, meccanica, incombente sulla scena che si articola in lenti movimenti: se l'intento era quello di schiacciare l'individuo sotto il peso delle masse umane l'intento è riuscito! Il tanto messo in palcoscenico con un alchemico contrasto di colori tra bianco, rosso, nero e argenteo, viene lasciato all'intuizione o alla predisposizione dello spettatore che precipita in un insieme di scenari sovraffollati, di figuranti nelle molteplici kermesse che si susseguono al ritmo serrato di una sfilata di moda dove i cromatismi prescelti si alternano sulle gradinate areniane. La troupe del balletto degli uomini in lustrini sembra uscire a tratti da una rivista degli anni ruggenti e i movimenti danzati ridotti, pur di avere un grande effetto, purtroppo soffrono di alcune imperfezioni ritmiche, elementi che sfuggono ad una economia interna dell'azione drammaturgica. Emblematico il duetto tra Aida e Amneris servito tra carrelli di mummie con un retrogusto di sala anatomica come la schiavitù, rappresentata da un fiume di carne umana. Per chi ha un vissuto storico di Aide areniane poteva segnalare elementi presi da qualche illustre allestimento passato: la sottolineatura illuminata delle gradinate, i picchi come trofei di guerra imbracciati dal coro, i forti contrasti di giochi di luci, tutto quanto che potrebbe dare l'impressione del già visto. In questa sovrabbondanza di elementi, come rappresentanti di una psicologia repressa, i personaggi principali vivono di vita propria, il bisogno di scambio e azione tra i protagonisti viene spesso ridotto, relegato e minimizzato, in contrasto con la massa scenica che li circonda. Eppure il cast in questa rappresentazione si presentava ben equilibrato con una sua amalgama vocale fatta di voci ben calibrate in tutta la tessitura lirica. E' stata l'unica rappresentazione con Luciano Ganci nelle vesti di Radames, qui è la sorpresa, che ha restituito al pubblico una lettura del suo personaggio sentimentalmente lirica, libera di retorica eroica. Merito della sua linea di canto sobria ed elegante, attenta a porgere il suono equilibrando l'emissione delle parti più acute; così ne esce fuori un Radames meno spavaldo del solito, avvinghiato tra le spire di un fato sovrastante (l'altra lettura possibile per il significato incombete della mano?), rassegnato. Accanto, la voce lirica di Monica Conesa, già presentata nell’ Aida alla fine della scorsa stagione, che ha saputo delineare un'altra dimensione vocale di Aida. Non essendo dotata di voce potente è stata capace di restituire una lettura introspettiva, tra il meditativo e il sognante, esemplificato in “O cieli azzurri”, pervasa da profonda malinconia e modulando gli acuti e filati con elegante finezza, sempre isolata anche nelle scene d'assieme. Serata che aveva punto di forza nella Amneris di Clémentine Margaine, che si è confrontata con un’altra sfaccettatura del personaggio, un'altra Amneris, rispetto al perfido personaggio a cui spesso la tradizione ci mostra, qui sacerdotessa delle divinità dei morti, avvinta nella solitudine come nella gran scena del sepolcro dove offre il meglio di questa sua vocalità ricca di armonici e di estensione vocale. Ha sorpreso l'Amonasro di Youngjun Park delineando un re degli Etiopi austero, musicalmente ineccepibile nell'autorevolezza di un canto di un re sconfitto che medita vendetta. Ben rappresentati i personaggi di contorno il Ramfis di Alexander Vinogradov assieme al Re di Abramo Rosalen come i collaudati Riccardo Rados (Un messaggero) e Francesca Maionchi (Una sacerdotessa). Il coro viene trattato come altro personaggio, parte attiva della messinscena, che si fa azione come parte di queste alterità collettiva tra vita e morte, ben strutturato da Roberto Gabbiani. Mai scontata la direzione orchestrale di Marco Armiliato, che ha saputo tenere tempi fluidi e intellegibili in mezzo ad un eccesso di rumorosità dal palcoscenico, quasi a voler sottolineare la dimensione lirica e intima di questa produzione di Aida, in contrapposizione con la ridondanza scenica dell'allestimento. Il pubblico, costituito perlopiù da turisti, ha riempito gli spazi areniani, compresa la platea, sorpreso dall'allestimento, ma partecipe dei momenti salienti dell'esecuzione, sostenendo più volte gli artisti. Successo per tutti e inaspettato per questo cast, combinazione unica in questa Aida del Centenario.
Federica Fanizza