dramma giocoso in due atti, libretto di Lorenzo Da Ponte
musica di Wolfgang Amadeus Mozart
con Gezim Myshketa (Don Giovanni), Valentina Mastrangelo (Donna Anna), Giovanni Sebastiano Sala e Matteo Mezzaro (Don Ottavio), Mariano Buccino e Cristian Saitta (Commendatore), Federica Lomardi e Mariateresa Leva (Donna Elvira), Andrea Concetti (Leporello), Riccardo Frassi e Davide Giangregorio (Masetto), Alessia Nadin e Alessandra Contaldo (Zerlina)
direttore José Luis Gomez-Rios
regia di Graham Vick
scene e costumi di Stuart Nunn, light designer, Giuseppe Di Iorio
coreografo Ron Howell, Coro Circuito Lirico Lombardo, Orchestra Pomeriggi Musicali.
Cremona, Teatro Ponchielli, dal 17 al 19 ottobre 2014
Don Giovanni nostro contemporaneo
Il dramma giocoso di Da Ponte Mozart riletto da Graham Vick fra polemiche ed eccessi
Don Giovanni è l'emblema stesso della condizione del nostro presente: un desiderare senza fine, quale disperata fuga dalla morte. Don Giovanni di Lorenzo Da Ponte e Wolfang Amadeus Mozart è il simbolo del vuoto che ci attanaglia, è bulimia sessuale, è scandalo per i melomani tradizionalisti da un lato e dall'altro è la riprova che la prassi lirica può aiutare a leggere il nostro presente, quando si affida ad una regia – quella di Graham Vick – coerente e non sterilmente provocatoria e a una direzione musicale – quella di José Luis Gomez-Rios – che dà plasticità, incisività alla partitura mozartiana grazie a interpreti, corpo orchestrale e coro amalgamanti e compartecipi nell'agire scenico. Sono queste alcune delle riflessioni che suggerisce la messinscena di Don Giovanni di Mozart, nata sotto l'egida del Circuito Lirico Lombardo che vede la partecipazione del Teatro Ponchielli di Cremona, Grande di Brescia, Sociale di Como e Fraschini di Pavia, Fondazione Pergolesi Spotini di Jesi, Teatro dell'Aquila di Fermo, Fondazione Teatro Comunale e Auditorium di Bolzano e Fondazione i Teatri di Reggio Emilia. Come spesso capita il confronto fra palcoscenico e platea si compie sotto il segno di un apparente tradimento della tradizione, immolata sull'altare della regia critica, dell'urgenza di attualizzare per forza. Così il Don Giovanni di Graham-Gomez Rios, come spesso accade, ha riproposto la difficoltà nel leggere la produzione lirica nell'ottica di una stringente e non pretestuosa contemporaneità. Si tratta di una crux interpretativa quanto mai scottante per il teatro lirico, ma non indolore neppure per quello drammatico che spesso vede contrapposto pubblico e registi, esigenza di interpretare grandi testi e autori e le attese degli spettatori. La stessa diatriba si è proposta nel Don Giovanni di Graham Vick, visto da chi scrive nelle repliche cremonesi al Ponchielli.
La chiave di lettura del Don Giovanni di Graham Vick è tutta nelle corone funerarie con la scritta 'Padre' e 'Papà' che fanno bella mostra sull'ouverture dell'opera e che sono il segno della morte del padre/Commendatore e, come direbbe Jacques Lacan, dell'evaporazione del padre. Da qui parte il regista anglosassone per leggere in chiave contemporanea il mito di Don Giovanni, un ragazzone che si fa le pere (Gezim Myshketa, seduttore, sbruffone, ma anche inquieto nel suo accumular conquista su conquista), che si fa la figlia del Commendatore (Mariano Buccino), donna Anna (Valentina Mastrangelo), che non esita a impalmare la neosposa Zerlina (Alessia Nadin) davanti all'incredulo Masetto (Riccardo Frassi) su una Range Rover che poi diventa carro funebre per le esequie del Commendatore. Su una scena che sa di pista circense, i cui confini sono segnati da un sipario degno degli spettacoli del Lido di Parigi, la vicenda di Don Giovanni si apre con la morte del Commendatore e 'quella tentata' di Don Giovanni. In mezzo a queste due morti violente – sottolineate dai nastri rossi e bianchi dei rilievi della polizia sulla scena del delitto - si muove un'umanità eccitata, dalla pistola facile, in un clima da mafia albanese, fra cantieri edili e container, fra luci da night e scene da riprese di film porno soft. Le conquiste di Don Giovanni sono un ammasso di manichini in una grande cassa da cantiere, una lista cadaverica di un desiderare senza fine, di un desiderare che in spregio della religio si attacca anche alla sottana talare di donna Elvira (Federica Lombardi). La festa che chiude la prima parte è un eccitato rave party ai piedi di un enorme manichino di donna in cui Don Giovanni viene smascherato e al tempo stesso il coro chiede la libertà, libertà di quei ragazzi senza padri, lasciati a loro stessi, storditi da sesso e droga per annegare il persistente senso di mancanza che induce Don Giovanni ad allungare la sua lista di impotente e affamato amante senza la possibilità d'essere appagato. Leporello, in tuta che stira la camicia del suo padrone, ne condanna l'azione, ma alla fine si ritrova ad assecondarlo fino a rischiare la vita nello scambio dei ruoli e dei panni. La tavola imbandita per la cena col Commendatore diviene squallido set porno soft con la telecamera mossa da Don Giovanni, davanti al quale passano Lolite che si procurano orgasmi strusciandosi le parti intime con la torta della festa, che si versano vino addosso, si sparano in bocca e si concedono a rapporti saffici. Tutto ciò è interrotto dall'ingresso del Commendatore che compare fra le gambe dell'enorme manichino di una donna nuda e legata. Tutto ciò racconta di un limite da varcare, sempre e comunque per sentirsi vivi, per dire di esistere, proprio come fa Don Giovanni che arriva a sfidare la morte. L'opera si chiude — o dovrebbe chiudersi — con la morte di Don Giovanni che invece fugge in platea fra il pubblico, mentre il coro si aggira in cerca del seduttore, indicando gli spettatori, come a dire che quel mito è nostro contemporaneo, o meglio ci rispecchia tutti.
Il Don Giovanni prodotto dal Circuito Lirico Lombardo è un bell'esempio di allestimento lirico, un'osmosi intelligente, molto pensata e ben costruita in cui le esigenze registiche si sposano e si amalgamano bene con l'aspetto musicale e melico. Il cast di cantanti ha mostrato una buona predisposizione attoriale, testo e contesto, azione e musica, interpretazioni ed esigenze meliche hanno trovato una loro omogenea compattezza che ha regalato alla platea a tratti un po' attonita un allestimento coerente, serrato che ha dimostrato con rigore e invenzione il punto di vista registico nei confronti dell'opera mozartiana e del mito dongiovanneo, confermando come la figura di Don Giovanni sia quanto mai metafora del nostro stare al mondo, o meglio della disperazione di una società senza padri e attanagliata dal vuoto a cui non rimane che stordirsi per non morire.
Nicola Arrigoni