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PHAEDRA - regia Michael Kerstan

Phaedra Phaedra Regia Michael Kerstan

musiche: Hans Werner Henze
direttore: Roberto Abbado, regia: Michael Kerstan, scene e costumi: Nanà Cecchi
con Natascha Petrinsky, Cinzia Forte, Mirko Guadagnini, Martin Oro, Maurizio Lo Piccolo
Prima italiana, Orchestra del Maggio Fiorentino
71° Maggio Musicale Fiorentino
Firenze, Teatro Goldoni, 5, 6, 7 giugno 2008

Corriere della Sera, 7 giugno 2008
La Stampa, 11 giugno 2008
Fedra, se il desiderio è peccato

Fedra portava un sangue maledetto per colpe di lontani antenati. La madre, Pasifae, fu preda della furia d' esser posseduta da un toro e generò un mostro, il Minotauro, dunque di Fedra fratellastro, custodito nelle grotte labirintiche della misteriosa Creta. Sua sorella, Arianna, venne abbandonata da Teseo sullo scoglio di Nasso: provenivano entrambi da Creta ove l' eroe, che incarna un principio di luminosa giustizia contro l' oscura colpa, ha ucciso il Minotauro. E tale uccisione è un vero e proprio rito religioso. Poi Fedra sposerà ella stessa Teseo re d' Atene dandogli figli che crescono a fianco d' Ippolito, nato dal connubio del Re con la fiera amazzone Antiope. A questo punto incomincia un mito tra i più possenti cantati in Europa. Sofocle gli dedicò una Tragedia, purtroppo oggi perduta; Euripide due, l' Ippolito velato, che non ci è giunta, e l' Ippolito; Ovidio dovizia di versi; fino alla minuziosa falsificazione d' atmosfera effettuata da Racine. In musica contiamo il sublime Paisiello, il drammatico Pizzetti con Gabriele d' Annunzio e una raffinatissima Cantata di Benjamin Britten ch' è la penultima opera sua. Il mito dice che Fedra è presa da un continuo languore e una continua angoscia: nutre entro di sé il sacrilego desiderio di Ippolito. Il giovane, devoto di Artemide e spregiatore di Afrodite, trascorre la vita tra virili cacce. Negli autori antichi ampio spazio è dato al fatto che Fedra, conscia del sacrilegio, non osa confidarlo a nessuno, e ciò acuisce il tormento. Quando infine Ippolito ne viene a conoscenza per l' importuna mediazione della nutrice della Regina, si vela il capo per l' orrore (Euripide perduto) o (Euripide) prorompe in un' ampia invettiva contro il sacrilegio e il sesso femminile tutto. Fedra comprende restarle una sola via d' uscita, la morte: e s' impicca subito, non senza aver lasciato un' infame lettera per Teseo, nella quale alliga di dover morire per l' onta di esser stata da Ippolito posseduta con la violenza. Teseo la legge e, creditore verso Poseidone di tre desiderî esauditi, gli chiede la morte di Ippolito. Un mostro marino sorge dall' acqua sul tratto di spiaggia percorso dal carro di Ippolito. Il carro si rovescia, il Principe resta intricato nei legamenti ed è straziato dalle rocce sulle quali viene trascinato. Nell' Esodo di Euripide appare Artemide a svelare il vero a Teseo e a dare il suo conforto al morente Ippolito. Nessun mortale, per pio che sia, può sfuggire alla volontà o al capriccio degli dei. L' ultimo dei grandi compositori, Hans Werner Henze, ha col mondo classico un rapporto intenso e numerosi titoli del catalogo vi sono dedicati. L' estrema sua fatica è la Fedra, andata in scena a Berlino lo scorso settembre e subito giunta alla «prima» italiana per il Maggio musicale fiorentino del quale costituisce la perla. Non chiamerò certo «libretto» il delicatissimo Poemetto lirico-drammatico steso da Christian Lehnert per la sua musica. Questo testo dimostra come il «parodiare» il Mito non sia l' unica strada posta innanzi a noi. Si può continuare a cercarne l' infinita ricchezza: egli si aggiunge con onore alla schiera dei poeti da me ricordati. Il grande filologo che presenta l' Opera, Franco Serpa, qualifica tale poesia siccome hölderliniana; ma noi vi vediamo tracce di Benn («nach dem alten Ritus der Sehnsucht und der Tötung», «nel rito antico del desiderio e dell' immolazione») e di Trakl («Nicht allein die Liebe führt Fleisch und Fleisch / zusammen: hab Geduld mit dem Tod!», «Non solo l' amore congiunge carne con carne: non dar fretta alla morte!»). Lehnert incomincia in medias res. Quasi subito avviene, ai confini del bosco, la rivelazione: Ippolito dorme e Fedra gli si presenta nuda. Ippolito la scaccia sdegnato e per disprezzo aggiunge che col padre non ne parlerà nemmeno. Ma qui già ci siamo accorti (inizio dell' Opera) della studiatissima forma della Fedra, Opera con elementi di Oratorio. I quattro personaggi, Fedra, Ippolito, Venere e Artemide, fungono anche, come ensemble, da coro narrante e sentenziante, e a volte uno solo funge da historicus. Il capriccio di Venere guida tutta l' azione: ella deve vendicarsi di Ippolito per la sua eccessiva virilità (non frigidezza), invano proteggendo il Principe Artemide. E rapidamente si giunge alla morte di Fedra, che lascia la celebre lettera, e a quella d' Ippolito, che conosciamo per il racconto fattoci da Artemide. Nel II atto gli Autori scelgono una delle versioni del mito di Ippolito. Diana lo fa risuscitare con l' aiuto del dio Esculapio (in scena un mimo) e gl' impone nuova vita: egli è ora Virbio, divinità boschiva protettrice del lago laziale di Nemi, ov' è l' ara della dea. Fedra è stata privata del suo compagno sulla barca di Caronte, riesce solo, trasformata in uccello, a fare sconci lazzi sugli altri. Poi scomparirà. In una luce trasfigurata Virbio e il Minotauro contemplano il tramonto, con l' orchestra che si riduce a puro silenzio. Decifrare i simboli del II atto è difficile. La rinascita e la resurrezione vanno inquadrate in una visione «ciclica» del cosmo, quella dell' «eterno ritorno»? O non piuttosto chi rinasce è altro da sé, non possedendo del sé precedente nemmeno i ricordi? Dunque dalla morte non si può ritornare, e il dialogo finale di Virbio col Minotauro è il discorso di due morti? L' orchestra di Henze è piccola, con prevalenza di fiati e percussioni sui soli cinque archi. Ne scaturisce un' aura classica e barbarica insieme che ha per pernio la natura contrappuntistica della meravigliosa partitura, il che integra in modo definitivo la scrittura delle voci. Questa non teme di effondersi in melodie, seppure ardue o astrali. Così l' apparentemente brutale dissonanza che prepondera brutale non è più, e squarci di tonalità ti sembrano improvvisi raggi di sole in un cielo corrucciato. La scrittura vocale è anche un' espressione spinta all' estremo, che contrasta talora colle parti «oratoriali»: Henze ci dipinge una Fedra terribile nel suo sacrilegio, con linee di canto (mezzosoprano coloratura) che attraversano lo spazio sonoro come serpenti. Afrodite è caratterizzata con linee che vanno da espressionismo a ironica coloratura, Diana con drammatica e tremenda austerità, Ippolito con quel che chiameremmo vero e proprio lirismo. Nel II atto tutto s' alleggerisce e s' allontana, secondo un' anticlimax delicatissima. Alla fine del II atto il pubblico esplode con autentico entusiasmo; poi s' accendono le luci in sala e tutti si volgono verso il Maestro, che, solo in un palco, deve nobilmente inchinarsi per un quarto d' ora. Siamo presi dalla commozione. Va ringraziato in primo luogo Roberto Abbado, che ha studiato la difficillima partitura e la concerta e dirige con autorità insieme e delicatezza. Poi Michael Kerstan, regista, e Nanà Cecchi, scenografa, che sul minuscolo palcoscenico dell' assolutamente inadatto teatro «Goldoni» fanno miracoli. Infine i quattro cantanti, strepitosamente bravi anche nel dominio dell' intonazione a onta di tutto il contrappunto orchestrale e attori consumati per una recitazione per lo più non realistica ma rituale: Natascha Petrinsky, Fedra, Cinzia Forte, Afrodite, Mirko Guadagnini, Ippolito e Martin Oro, Artemide (parte di contraltista).

Paolo Isotta

La "Phaedra" di Henze
la musica consola il dolore

L'impossibilità dell'amore è il filo rosso spesso riconoscibile nell'ampio catalogo operistico di Hans Werner Henze. Viene ribadito, ma con dolcezza, anche da Phaedra, presentata al Maggio Musicale Fiorentino. L'opera ha avuto una gestazione lunga e tragica; interrotta dalla grave malattia del maestro, segnata dalla morte inattesa del più giovane «mio compagno di vita, intimo e più stretto amico» e infine completata, con una felicità di risultato che rappresenta un momento di eccellenza del teatro musicale contemporaneo. A 82 anni il compositore tedesco, da tempo residente in Italia, consegna un lavoro dove la sapienza della scrittura non occulta l'originalità dell'invenzione. Dominio della tecnica e continuità dell'ispirazione non si lasciano mai.

Fedra ama Ippolito, figlio di altro letto di suo marito Téseo. Il ragazzo resiste, la signora si vendica accusandolo di tentato stupro: Téseo infuriato invoca il dio del mare perché lo punisca; orrendamente dilaniato, muore l'innocente. Vince Afrodite, capricciosa istigatrice di Fedra e invidiosa di Artemide, casta protettrice di Ippolito. Ma i miti non finiscono mai di trasformarsi e, nel secondo dei due atti, l'opera sfiora l'autobiografia: Artemide ricompone il corpo di Ippolito, ma il giovane si ribella alla capricciosa volontà di tutte le dee, ne abbatte le statue e risorge come Virbio, mite e danzante dio-bambino dei boschi, venerato dagli antichi romani, capace di superare la transitorietà della vita umana. Con lui, il Minotauro, un po' toro un po' uomo, risultato insuperabile degli amori più irresistibili e osceni.

Speranza e dolore, abbandono e desiderio convivono in una partitura che non rivela un solo momento di debolezza e che ha trovato in Roberto Abbado un interprete fedele e inventivo, mai in difficoltà nella complessità ritmica della scrittura, attento all'equilibrio delle sezioni, pronto a lasciar emergere il fascino dei tanti colori di questa musica, preciso negli attacchi ai cantanti, impegnati anche in severi passaggi madrigalistici: l'insieme di musica e parole sorgeva sempre con fluida naturalezza. Il compositore Francesco Antonioni ha curato alcuni inserti di musica elettronica, incaricati di rappresentare un temporale e altri momenti di protagonismo della natura.

Uno dei doni di Henze è la capacità di far cantare, con teso e virtuosistico lirismo, la parola. Il libretto di Christian Lehnert è sapiente e funzionale, colmo di belle immagini, capace di personali delicatezze, di amare ironie. Il cast vocale è scelto con acutezza: Cinzia Forte, che conosciamo come squisita belcantista, è un'Afrodite di suprema eleganza, Natascha Petrinsky ha la rabbia e gli ardori di Fedra, Mirko Guadagnini dona ad Ippolito la sua voce potente e duttile, il falsettista Martin Oro, mai stridulo, mai nasalizzante, canta come Artemide, dea che non ama troppo il suo sesso. Possente, felice il Minotauro di Maurizio Lo Piccolo.

L'opera ha debuttato a Berlino in settembre e per questa prima italiana Henze, non soddisfatto della regia di Peter Mussbach, ha chiesto un nuovo spettacolo, meno invasivo, più devoto al primato della musica. Firmato da Mihael Kerstan, con le scene e i costumi di Nanà Cecchi, e supervisionato dallo stesso compositore, l'allestimento non è all'altezza della partitura. La recitazione esagerata, l'ingenuità descrittiva, un certo piatto naturalismo, svelano l'intento di fare in realtà una non-regia, piuttosto una messa in scena, dichiarata da quel pallido telo dipinto che raffigura il paesaggio dei castelli romani, così cari al maestro, ma rappresentati con troppa povertà. Meccanica la coreografia di Antonio Colandrea. Due ore di durata, applausi per tutti gli interpreti e lunghissimi per l'autore, così magnificamente ridonato alla musica.

Sandro Cappelletto

Ultima modifica il Lunedì, 22 Luglio 2013 10:57
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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