di Sofocle
regia di Maurizio Panici
con Edoardo Siravo
Tindari, Gli Spettacoli Classici, fino al 20 giugno 2007
Quante Antigoni abbiamo visto, sentito, commentato nelle ultime stagioni del teatro italiano. Tante, e forse troppe se nel conteggio comprendiamo anche le eccentriche riletture made in Usa che, sull'onda della famosa rivalutazione del Living negli anni sessanta, si sono abbattute sul nostro paese. A cominciare dalla cupa ombra di Judith Malina che, nel patetico spirito pacifista dei Figli dei fiori, tramutò la dolce fanciulla che affronta la morte in ossequio alla legge non scritta del rispetto e del culto dei morti in un'antesignana dei portavoce brechtiani. Fino alle aristocratiche principesse degli spettacoli di Bosetti e all'ispirata Chiara Muti nell'edulcorata versione di Tiezzi.
Adesso, per fortuna, Maurizio Panici nello splendido emiciclo di Tindari trasformato dal regista in una cavea della memoria precipita il dramma di Sofocle nell'ambito di un processo a porte chiuse. Che il pubblico è chiamato a spiare decifrando i rari segni intermittenti che costellano l'habitat. Dove i severi costumi color antracite delle donne disegnati da Marina Luxardo si oppongono, in uno scontro sulfureo, agli sparati cerimoniali degli uomini. Ma il contrasto dialettico tra femminile e maschile oltrepassa lo stadio del puro e semplice scontro dal momento che entrambe le costellazioni in gioco (il duetto Antigone - Ismene da una parte e il duello verbale Creonte - Emone dall'altra) sono dannate a muoversi tra oggetti-feticci acuminati e perversi, tracotanti simboli di derisione e minaccia. I quali, come se fossimo precipitati in una civiltà di cui ignoriamo la legge costitutiva, affondano nella sabbiosa distesa delle origini. Determinando in modo tangibile gesti, movimenti e intonazioni degli interpreti. Basti pensare al trono su cui Creonte è costretto ad amministrare la giustizia fatto di un'obliqua sezione che, spiovente dall'alto sul seggio, ricorda la lama della ghigliottina.
Una scelta stilistica di indubbia efficacia che si riflette nell'impostazione tragica. Dove accanto al Coro, riassunto e potenziato nella figura univoca dello stesso Panici, e alla veemente introspezione di Edoardo Siravo risolto con rara sensibilità dall'interprete che fa del tiranno una cieca vittima della fatalità, l'inedita Silvia Siravo coi suoi morbidi trapassi dall'innocenza alla mortificazione della carne disegna un'Antigone suggestiva e lunare che rimarrà a lungo nella nostra memoria.
Enrico Groppali