liberamente ispirato all’Ulisses di James Joyce
con Maurizio Panici
luci e ambienti digitali Davide Stocchero
paesaggi sonori Soundfactory
aiuto regia Francesca Scomparin
regia Maurizio Panici
produzione Argot in collaborazione con ATS Teatro di Comunità
Marostica (Vicenza), Ridotto del Politeama, 21, 22, 23 aprile 2022
Se lo si guarda si vede noi stessi, quello che Leopold Bloom descrive, fa, muove ed elabora col pensiero e le parole ci riguarda tutti, da così vicino che nemmeno lo si può immaginare. Ispirato al romanzo-capolavoro di Joyce “Ulysses”, lo spettacolo che Maurizio Panici ha messo in scena e che anche interpreta, mostrando grandi qualità d’attore, è un condensato di emozioni continue, che si perpetuano minuto in minuto e che passano anche attraverso le movenze che il protagonista fa, spizzzicando di tre quarti, di profilo, adagiando come su nuvole passeggere il resoconto della sua giornata qualunque, appunto, nello scorrere del tempo impossibile a fermare. “Leopold” racconta attraverso il suo sofferente protagonista i pensieri di una vita sezionata, che sono i suoi ma che spesso, spessissimo possono raccontare del prossimo, inerenti a battaglie quotidiane, convivenze, elucubrazioni che riguardano (anche) il cibo, simbolo e meta finale di un ricovero che può solo essere in questo modo, o in pochi altri, estasiato. Salta agli occhi il suo lucido pensare, che è anche meticolosità e sviluppo dell’agire, del condensare in una giornata anche tutte le altre passate e le prossime a venire. Leopold incontra personaggi, conoscenti, con cui dividere convenevoli, ma anche rabbiose, ciniche discussioni su tutto e niente, un pout pourri che guarda alla psicanalisi, in questa sorte di autoconfessione spietata e dall’alta, altissima prosa che fa rimaner incantati a sentire, a vedere. La scelta di questo testo da parte del regista e attore Maurizio Panici va letta, visto il periodo anche, in chiave più che mai contemporanea, anzi, direttamente rivolta ai giorni nostri, dove tutto e niente si mescolano, si confondono facendo comunque prevalere il Leopold pensiero, l’analisi fredda e corposa di una visione sull’esistenza. Leopold si muove in una scenografia che cambia aspetto a piè pari grazie alle straordinarie lavorazioni di ambientazione digitale create con grandissima efficacia da Davide Stocchero, del quale va ricordato, ed esaltato, l’ottimo lavoro. Che segna un ottimo modo di fare teatro scenograficamente parlando allo spettatore con un linguaggio che se non nuovo è comunque oniricamente trasformista, emblema, e si assume a coronario scenico di importante levatura. Tutto funziona ed è vincente in questa messa in scena felicissima, un capolavoro nel capolavoro mi vien da dire, che Panici con grande intelligenza e lungimiranza estrema recupera consentendo a chi guarda di avvolgersi e trovarsi e perdersi, in un andirivieni solerte e pragmatico, dove allo scoperto escono malefatte della mente, rami secchi da tagliare, ma anche il proposito di riuscire, o tentare, almeno, di salvarsi. Leopold sa di poter proporre una propria soluzione, a sé, che passa attraverso la miciolina, il rognone e quel gusto particolarmente sudicio ed ancestralmente eccitante, dietro a quella rete che lo divide dal pubblico, straordinaria invenzione che si mette da sola tra i protagonisti della scena. Come poter esiliarsi, estraniarsi? “Felice è colui che non pensa” è una frase che mette i brividi, che si inserisce nei sound arabeggianti lontani, sullo sfondo di un’azione intensa, ma anche giocosa a tratti, misteriosa. Quando, sul finire, tutto finisce e ricomincia, e Leopold annuncia proprio a lei la sua uscita da casa lo spettacolo prende una piega inaspettata, con una tirata trasecolante tratta dal “Libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa, fatta a un microfono d’antan che col suo rimbombare parole forgia un nuovo strato di consapevolezza. Uno spettacolo importante, che conferma il lavoro svolto da Argot e ATS, e da Panici stesso chiaramente, come vittorioso ma che soprattutto riconsegna a tutti una prova d’attore sicura, con piglio deciso, da mattatore proprio, che si avvicina alla perfezione regalando al pubblico un Leopold straordinario, davvero intenso e pregno di significato.
Francesco Bettin