di William Shakespeare
traduzione e adattamento di Fabio Grossi e Simonetta Traversetti, regia di Fabio Grossi
con Leo Gullotta, Alessandro Baldinotti, Paolo Lorimer, Mirella Mazzeranghi, Fabio Pasquini, Rita Abela, Fabrizio Amicucci, Valentina Gristina, Cristina Capodicasa, Gherardo Fiorenzano, Gennaro Iaccarino, Federico Mancini, Giampiero Mannoni, Sante Paolacci, Sergio Petrella, Vincenzo Versari
scene e costumi di Luigi Perego, musiche di Germano Mazzocchetti, movimenti coreografici di Monica Codena, luci di Valerio Tiberi, assistente alla regia Mimmo Verdesca, produzone Teatro Eliseo di Roma
al teatro Ponchielli di Cremona, 25 gennaio 2011
Teatro Stabile di Catania dal 7 al 26 febbraio 2012 (in tournée)
L'opera, tra le meno valorizzate (spesso travisate in gran babele) del repertorio del Bardo fu commissionata dalla regina Elisabetta (tra il 1599 e il 1600), curiosa di scoprire l'evoluzione del personaggio di Falstaff, già presente nell'"Enrico IV", dove veniva 'liquidato' per la additare alla pubblica virtude i vizi privati del personaggio (non ulteriori al piacere per la crapula innocua e clownesca).
Rinnovato di intrighi, baldanza, esplicite delizie della 'feriée', il testo narra quindi dell' anziano, rubicondo Gaudente, in cerca di denaro e fortuna. Intento, ad esempio, ad inviare lettera d'amore a due ricche donne ad altri maritate, ovvero la signora Ford e la signora Page. Le quali, scoperto l'inganno, decidono di punire Falstaff gettandolo in una cesta di panni sporchi nel Tamigi (al primo appuntamento), bastonandolo (al secondo) e facendolo assalire da una falsa orda di fate e folletti (durante il terzo).
Parallelamente, com'è d'uso in Shakespeare, s'intrecciano le vicende amorose tra la figlia della signora Page e i suoi numerosi corteggiatori. In una sorta di apologo che dovrebbe dimostrare come la vita si incarichi di 'punire' le malefatte, nell'orbita di un' 'operetta morale' in grado di stigmatizzare (ma anche blandire) la lussuria, la gelosia, la tirchieria in una sorta di eticità didattica, festosa e burlesca (dal momento che tutti i personaggi amano giudicare, ma non essere giudicati).
A prevalere, quindi, è il senso di una realtà (anch'essa, in fondo un' allegra comare-secca) che sembra incaricata di ristabilire il più 'regnante' equilibrio tra morigeratezza e deboscia, saggezza e sregolatezza.
Probabilmente condizionati dalla magnifica trasposizione cinematografica del "Falstaff" datata 1966 (dove a primeggiare era un ciclopico Orson Welles onusto di melanconia e corrusco di smacco esistenziale) e dalla successive seduzione attorali di Tino Buazzelli e Giulio Brogi (che furono grandi Falstaff, rodomontici e rosicati nell'anima, prima che nel corpo), non celiamo il disagio con cui ci si rapporta a questo traguardo interpretativo dell'ottimo, versatile Gullotta. Che, tuttavia, vira e deflette dalla 'carnalità' del personaggio come per 'accomodarlo' su una più inusitata (semi faunesca) incarnazione del piccolo-Bacco, trastullato e trasportato in lettiga come nella famosa poesia di Lorenzo il Magnifico. Donde è assente, però, ogni accento di vacuità e mestizia rispetto all'effimero transitare dell' 'umano carnevale'. A cui dovrebbe, secondo tradizione, far seguito un incombere di pentimento e quaresima, che non mi pare influiscano sulla fescennina, sbrigativa regia di Fabio Grossi.
Tantomeno in quell'ansa di trasgressione e cachinno, che è il canone carnevalesco dell'allestimento, senza farsi carico di precisare 'rispetto a cosa', a 'quali consuetudini' e 'morigeratezze' cui 'semel in anno licet insanire'.
Se è vero che, come carro allegorico, tutto e tutti, come marionette (senz'ombra quindi di un 'trascorso', di un 'passato') scaturiscono dalle 'regnanti sottane' di un mascherone a forma di totem, che ha le fattezze derisorie della sovrana demente e plaudente. E che, le tipologie umane, i caratteri preminenti della rappresentazione sembrano appagarsi di un lieto macchiettismo plautino, filtrato dalla lezione del Boccaccio e della 'commedia dell'arte'; ed al netto di qualsiasi altra preoccupazione interpretativa. Che non sia l' adattamento linguistico alle scene di più crassa comicità (in uno strambo mix di francese e 'latinorum') e alla divertita balele di cui si accennava all'inizio: a mia memoria, avvincente e pirotecnica solo negli Shakespeare di Jerome Savary.
Quindi una scorciatoia per garantire -e garantirsi- plauso e divertimento del pubblico meno avvezzo all'arte della commedia, scrollata degli stereotipi che qui sovrabbondano.
Angelo Pizzuto
Nicola Arrigoni