Regia di Fabio Grossi
di Luigi Pirandello;
con Leo Gullotta, Liborio Natali, Rita Abela, Federica Bern, Valentina Gristina,
Gaia Lo Vecchio, Marco Guglielmi, Valerio Santi e Sergio Mascherpa;
scena e costumi Angela Gallaro Goracci
Compagnia Enfi Teatro - Produzione di Michele Gentile e Teatro Stabile di Catania
8 gennaio 2020, Teatro Monticello – Grottaglie (Ta)
È davvero impressionante pensare, come spesso accade con le opere di Pirandello, quanto attuale sia la tematica intrinseca nei suoi testi, così come in “Pensaci, Giacomino”. Questo scioccante particolare dà da pensare per quale motivo, grandi autori (come Pirandello stesso), e grandi attori del teatro, cimentandosi con tali opere e in tali ruoli, non siano mai riusciti ad abbattere stereotipi dalla gravità enorme come quelli vissuti dal professor Toti. Quanto coraggio avrà avuto Angelo Musco quando, nei primi anni del 900, Pirandello traspose in siciliano l’opera, dall’originale novella, per fargliela recitare in teatro? Tenendo conto, oltretutto, che, nonostante Pirandello fosse insegnante in Germania, raccontava comunque una Sicilia culturalmente agli albori; dalla società raramente distaccata dai terribili stereotipi.
“Pensaci, Giacomino” è forse una delle opere che più rispecchia, in modo crudo e diretto, il messaggio pirandelliano. Il fatto che, al centro del testo, ci sia proprio la palese intensione di trattare solo e solamente come tema “il pettegolezzo” e la sua pesante consistenza, sboccia come un vivo fiore in un campo di erba secca. Oltretutto, la teoria del grande maestro siciliano, che ci pone dinanzi all’eterno dilemma dell’essere e dell’apparire, viene illustrata, nel primo atto, dal professor Toti, come fosse una vera e propria lezione di vita. Oltre che un importante insegnamento teatrale che Gullotta dona al pubblico.
Com’è noto, la storia racconta di una fanciulla che, rimasta incinta del suo giovane fidanzato, non sa come poter portare avanti questa gravidanza: il professore Toti (Leo Gullotta) pensa di poterla aiutare chiedendola in moglie, e potendola poi autorizzare a vivere della sua pensione, “per almeno cinquanta anni”, dal giorno che lui non ci sarà più. La società civile si rivolterà contro questa decisione, anche a discapito della piccola creatura, che nel frattempo è venuta al mondo. Una tragedia civile che si configura, così, in tutta la sua morbosa veemenza.
La lettura drammaturgica, e la regia elaborata da Fabio Grossi, rendono il testo molto più snello dell’originale, e sintetizza in 80minuti circa tutta l’opera, che non per questo perde consistenza. La figura della creatura nata dal tanto discusso “fattaccio” sparisce scenicamente, ma senza, per questo, far sentire la sua mancanza in scena. Leo Gullotta, sul quale sarebbe ormai ora di smettere di menzionarlo banalmente per quello che fu “il Bagaglino”, veste i panni del professore con eleganza e meravigliosa padronanza. Abiti che profumano del suo sottile stile recitativo, e della sua bellissima Sicilia.
Al suo fianco, una grandiosa compagnia. Con un cast giovane e preparato, che non lascia spazi vuoti e incomprensioni. Meravigliosa Federica Bern, nel ruolo della giovane mamma. Forse un po’ troppo sulle righe, invece, l’interpretazione del bravissimo Sergio Mascherpa, nella parte del prete, per via di una dizione tirata in modo esasperato, soprattutto se si pensa che interpreta un semplice prete di paese, esperto di pettegolezzo popolano. Ma certamente, è voluta. Distintamente al di sotto dell’efficienza del gruppo, è invece l’interpretazione (seppur breve, ma storce l’atmosfera, soprattutto sul finale) di Marco Guglielmi, nel ruolo proprio di Giacomino. Un’elaborazione meno “accademicamente standard” avrebbe reso certamente più interessante ed enfatica la conclusione. La differenza con i toni di Gullotta erano palesi. Le linee ferree che può dettare una scuola di recitazione (ricca o povera di réclame che sia), seppur importanti come base d’analisi per ogni ruolo, non devono necessariamente essere l’unica e sola ancora di salvezza. Esiste un termine, che spesso viene minimizzato: caratterizzazione (Stanislavskij e Strasberg insegnano… quando insegnano!).
Meravigliosa è l’intuizione scenografica di allestire la scena con grossi faccioni dipinti, con una forma che ricorda molto quella che era la firma stilistica di Dario Fo pittore. Questi grossi occhi neri che per tutto il tempo fissano il pubblico, e che, nei cambi, vagano da un punto all’altro del palcoscenico, rendono benissimo lo stato d’animo dei personaggi. Criticati e osservati in modo maligno da chi gli sta intorno. Per il resto, la scena è essenzialmente allestita, e le luci agevolano i punti critici della narrazione.
In conclusione, “Pensaci, Giacomino” è un’opera che, nonostante i suoi abbondanti cento anni di vita, a pieno rispetto delle finalità del grande Teatro, potrebbe essere considerata come “terapia prescritta dal medico”. Così da ricordare, ogni qual volta la si vede, quanto l’uomo, proprio per natura, non abbia mai gradito occuparsi esclusivamente dei fattacci propri.
Valerio Manisi