di Thomas Bernhard
traduzione Roberto Menin
drammaturgia Sandro Lombardi
con Sandro Lombardi, Massimo Verdastro
regia di Federico Tiezzi
scene di Gregorio Zurla
costumi di Giovanna Buzzi
Associazione Teatrale Pistoiese/Compagnia Lombardi - Tiezzi
Pistoia, Teatro Manzoni dal 22 ottobre al 15 novembre 2015
PISTOIA - Karl e Robert; due fratelli e il loro confronto ora duro, ora bonario, ora ironico, ora distaccato, sul filo della memoria di una carriera artistica ormai trascorsa, e del comune ricordo di Mathilde, moglie del primo e cognata dell'altro, da ognuno diversamente ma intensamente amata. A giorni stabiliti, martedì e giovedì, i due uomini si fanno visita regolarmente. In L'apparenza inganna, Thomas Bernhard ricostruisce e indaga le loro esistenze, cogliendoli nell'attesa e nel momento della visita; due solitudini, due personalità amareggiate, due strane combinazioni di raffinatezze ed eccentricità, ognuna, a suo modo, prigioniera di sé stessa. È questa l'amara considerazione cui giunge il raffinato testo del drammaturgo austriaco, fra i più talentuosi del secondo Novecento, fortemente legato alla cultura mitteleuropea e alla filosofia di Immanuel Kant. Del filosofo e saggista tedesco, i testi di Bernhard conservano il rigore etico, il severo pre-romanticismo che apre la strada all'idealismo, secondo cui l'oggetto della conoscenza non è la realtà in se stessa, bensì l'idea o la rappresentazione mentali di questa. Ecco spiegato perché l'apparenza inganna, considerando come le categorie trascendentali dell'intelletto siano forme del pensiero, non dell'essere: non ci permettono di conoscere la realtà in sé (noumeno), ma soltanto come questa ci appare (fenomeno).
Questa le necessaria premessa per poter apprezzare un testo dal linguaggio raffinato, attento alle mille sfumature del pensiero, e alle ripercussioni che questo ha sui rapporti fra esseri umani. Federico Tiezzi impronta la regia a un rigoroso rispetto dell'atmosfera originale, con i suoi silenzi, i suoi monologhi, e quei dialoghi pensati per ascoltare sé stessi.
Karl è un anziano artista del varietà - divenuto famoso attorno agli anni Cinquanta dopo il debutto al Lido, il famoso cabaret parigino -, appesantito da un'epa badiale e dall'amarezza della vedovanza. Sandro Lombardi dà vita questo pedante ex giocoliere portando sul palcoscenico tutte le sue manie e idiosincrasie. Nel monologo introduttivo, veniamo a conoscenza delle difficoltà a relazionarsi con una moglie, Mathilde, sì amata, ma della quale poco apprezza le umili origini, la poca cultura, e quel voler insistere a suonare Mozart al pianoforte, pur non avendone la capacità. Lombardi rende con efficacia l'egotismo e il risentimento di un uomo di fatto venale, avaro, che concepisce l'arte come un semplice mezzo per vivere acquistare notorietà. A guastare i rapporti con il fratello, il lascito, a questo, della casa di campagna da parte della moglie. Un gesto che Karl valuta solo da un punto di vista economico, ma che invece autorizza il pubblico a considerazioni di carattere diverso, circa la natura dei rapporti fra Mathilde e Robert. Questo, è un ex attore con il rammarico di non aver mai interpretato Re Lear, molto più istintivo del fratello, che concepisce l'arte come forma di espressione del sé, di avvicinamento al Bello, una sorta di appagamento spirituale, prima ancora che economico. Massimo Verdastro si cala con bravura in questo idealista vagamente ipocondriaco, incline al silenzio introspettivo.
I dialoghi tra i due fratelli hanno, paradossalmente, la loro parte più espressiva nei silenzi che si scambiano, nelle espressioni del volto che indicano un giudizio più efficace di mille parole. Ciò che emerge Da questi dialoghi, è una giovinezza vissuta con un padre severo e una madre remissiva, la strada dell'arte intrapresa contro la volontà dei genitori, un clima che ha favorito le eccentricità dei due fratelli, e il loro rapporto conflittuale, basato su una conoscenza soltanto apparente, e su giudizi reciproci del tutto personali. Riecheggia il Kant della Critica alla ragion pratica (1788), dove si afferma l'impossibilità di un giudizio legato soltanto all'esperienza, ma sorretto anche dalla conoscenza della realtà come essa è, il noumeno, appunto. L'apparente lontananza tra i due la si comprende dalla diversità dei loro appartamenti: quello di Karl è tipico di un raffinés sullo stile di Honoré de Balzac o Barbey d'Aurevilly, pieno di mobili eleganti, ma solenni e freddi, che stipano stanze piene di memorie della defunta moglie, rievocati ora con nostalgia, ora con sottile risentimento. Robert abita invece un appartamento luminoso, con pochi mobili, due comode poltrone e un soffice tappeto. Sono gli appartamenti i "campi di battaglia" di questo confronto fra due personalità che, a ben guardare, non possono fare a meno l'uno dell'altro, per vari motivi: li tiene uniti il ricordo di Mathilde, provano un bizzarro piacere nel giudicarsi a vicenda, ancora portano in sé l'amaro ricordo dei genitori, e, in definitiva, sono entrambi prigionieri di sé stessi, entrambi "soccombenti", incapaci di affrancarsi dai condizionamenti, privi di quella volontà morale che rende possibile la libertà e la scelta.
Due uomini all'apparenza lontani, in realtà vicini, come lascia intendere Bernhard nel sibillino finale, immaginando una passeggiata dei due fratelli.
Un allestimento che ha il suo punto di forza anche nell'inconsueta organizzazione degli spazi del Teatro Manzoni, a cominciare dalla breve attesa nel foyer, per proseguire con il primo atto nel Saloncino, e terminando sul palcoscenico, dove si ritrovano anche gli stessi spettatori. Un allestimento che "costringe" il pubblico a muoversi per il teatro, a entrare nell'intimità dei suoi spazi, a viverlo come fosse una vera abitazione; un viaggio scenico che procede parallelo al viaggio psicologico nella personalità di Robert e Karl, nelle pieghe, a volte anche oscure della loro anima. E al termine del viaggio, si scopre la bizzarria dell'essere umano, che racchiude in sé tutto e il contrario di tutto, e che nemmeno la filosofia riesce a inquadrare. E c'è, in Bernhard, una sorta di indulgenza, che a tratti diventa pietà, per la fatica cui è condannato l'uomo, ovvero, per citare Longanesi, "a vivere di contraddizioni".
Uno spettacolo profondo e raffinato, che ha meritati gli applausi del pubblico.
Niccolò Lucarelli