di Giovanni Testori
con Fabrizio Gifuni
Produzione Solares Fondazione delle Arti
Milano, Teatro Franco Parenti dal 3 al 6 maggio 2017
Un ciclista aggredito dalle cose. Questo si potrebbe dire del Consonni mentre è impegnato nella corsa della vita, una gara che gli farà quasi perdere la vita; una quasi vittoria che diventa una sconfitta certa; senonché la parola testoriana lo riscatta pienamente nel momento in cui la vicenda biografica del Consonni diventa atto di scultura al ciclista sbalzato via; statua dinamica colta nel momento massimo dello sforzo, come quell'opera del Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, che cattura la figura umana in velocità e la materializza nella tensione eterna delle onnidirezionali linee di fuga. Statua impastata di parole-saliva, parole-sangue, parole-sudore, messa lì a seccare nel caldino delle pagine chiuse per risvegliarsi nella mente dello spettatore e soprattutto, qui al Teatro Franco Parenti, nella voce e nel corpo di Fabrizio Gifuni, che ci diventa sotto gli occhi un Consonni a tratti semiparalizzato, carico di un'energia da disperàa che solo certi vecchi eroi popolari da casa di ringhiera sono ancora in grado di generare.
Testori dipinge e scolpisce con le parole una partitura in soggettiva che è anche elettrocardiogramma ed elettroencefalogramma in diretta per bocca del corridore stesso impegnato in una gara dove la fatica fisica sembra provocare una dilatazione allucinata della capacità di visione: all'apice dello sforzo quasi sovrumano di quelle gambe che mulinano e di quella sfida dell'equilibrio che dovrebbe trasformare la fatica in levità tutto sembra rallentare, e i dettagli allora si moltiplicano con sventagliate di microinquadrature quasi anatomiche (l'interno del labbro del capo della squadra Vigor, Dante Pessina, che gli corre accanto, mentre stringe il limone coi denti; le sue narici che vibrano; le braghe nere che vanno su e giù davanti agli occhi del gregario; i rutti, le sputate, i borborigmi di pancia, tutto viene registrato dallo sguardo ferino e allucinato del Consonni-Testori).
Parole che si agglutinano come schegge impazzite e sbarluscenti di mica, tuttavia governate da una misteriosa forza di gravità che le impernia su una lingua quasi deformata e quanto mai concreta, parlata, musicale e aspra per bocca di un Consonni quasi morto e anzi istupidito, che guida il flash back come avesse una videocamenra di ultima generazione montata sul casco della lingua.
Ecco, il rapporto con le immagini che scaturiscono da queste parole non è di pura visione; la GoPro linguistica naviga all'interno del processo percettivo, prima ancora che registrare il dato puramente esteriore come accadrebbe se fosse davvero montata sul casco del pedalante a ogni buca e curva e sconnessura dello stradame misto di terra, asfalto, erba e binari del tram che questi due ciclisti degli anni '50 si trovano ad attraversare in un Italia mezza ricostruita e mezza no.
Gifuni, in una breve e quantomai necessaria introduzione, poco prima di rientrare in scena come performer, ci informa che quanto lui ci leggerà è il primo capitolo del romanzo "Il dio di Roserio", uscito nel 1954. Qui Testori, prosegue l'attore, pur all'inizio della sua carriera di scrittore, sembra raggiungere da subito quell'energia e quella carica sperimentale che ritroverà solo più tardi, soprattutto in quella che sarà poi la sua futura produzione teatrale.
Un ciclista aggredito dalle cose, dicevamo; sì, perché la tecnica compositiva di Testori ci mostra l'atleta letteralmente immerso in un paesaggio di velocità dove non è lui a andare dentro alle cose, ma le cose a saltargli addosso. Allora lo vediamo aggredito dalle case che gli si fanno contro; o da improvvise rupi che gli si rovesciano sulla testa; da paracarri che gli saltano tra i piedi; e gente che urla; e il lago, motivo di fondo, dilatazione quasi musicale, che torna spesso a intercalare con una promessa di calma la scena frammentata e infuriata di vento e scoppi di motocicletta che il Consonni, insieme col Pessina, si trova ad attraversare.
Ma anche un ciclista gregario aggredito dal suo capo: Dante Pessina è un campione di provincia, e il Consonni gli deve reggere la gara. Ma lui a un certo punto diventa più forte del capo, che smorto e pallido dietro a lui non ce la fa e gli urla "ralenta!", "molla!" senza esito, fino a che una manata lo spinge fuori strada; Consonni cade e batte la testa contro un sasso: non muore, ma rimarrà istupidito per tutta la vita; il Pessina vince, ma a prezzo d'un quasi omicidio...
Il torso e la schiena di Gifuni, in quest'ora anfetaminica sui pedali delle parole incrostate di vita del Testori sono sempre attivi, vivi. Le braccia e le mani, pur plasticamente attive ad abbozzare immagini del testo, hanno sempre funzione cinetica, mai meramente descrittiva, mai ornamentali o "estetiche". Anche le gambe non sono mai a riposo, tanto più che spesso durante il lavoro – che è ancora uno studio e dunque il testo è letto a leggìo - egli se ne sta in equilibio precario su un alto sgabello, mezzo in piedi e mezzo seduto. Di fianco, a terra, un rottame di bicicletta evoca l'incidente, ma non entra a far parte dell'azione.
Soprattutto vediamo Gifuni impegnato in una lotta fisica con la parola di Testori che si rivela da subito in grado di generare un'energia formidabile. Egli è attore che non dimentica mai quanto la parola sia voce e la voce corpo. La sua voce pare cercare nelle cavità più insospettate del corpo la forza per risuonare sempre diversa. Ma è soprattutto energia la parola chiave, più che tecnica. Non è tanto mostruosa tecnica recitativa la sua, quanto piuttosto energia mostruosa, che fonde la tecnica in favore del servizio attoriale; e fonde altresì l'identità televisiva e cinematografica della star Gifuni in quello che si rivela un umile e generosissimo servizio al teatro.
Franco Acquaviva