I tre interrogatori
da Fëdor Dostoevskij
adattamento teatrale e regia Claudio Collovà
con
Sergio Basile (Porfirij Petrovic)
Nicolas Zappa (Rodiòn Romànovič Raskol’nikov)
Serena Barone (Vecchia usuraia \ Lizaveta)
scene e costumi Enzo Venezia
musiche Giuseppe Rizzo
luci Pietro Sperduti
aiuto regia Valentina Enea
scenografa collaboratrice Giuseppina Giacalone
elettricista Marco Santoro
capo reparto fonica Pippo Alterno
macchinista Fabio Maiorana
capo sarta Erina Agnello
attrezzista Chiarastella Santalucia in collaborazione con Accademia delle Belle Arti di Palermo, corso di scenografia
produzione Teatro Biondo di Palermo
Palermo, Teatro Biondo dal 31 gennaio al 4 febbraio 2024
In quello spazio che si dà in intimità con lo spettatore che è la Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo emerge, scolpito gradualmente da un cono di luce pittorica Raskol’nikov il protagonista di Delitto e Castigo di Fëdor Dovstoievskij, uno dei romanzi più celebri della letteratura mondiale che Claudio Collovà, coerentemente al suo pluriennale percorso di innesto tra pagina letteraria e teatro, porta in scena strutturato in una gabbia registica e drammaturgica di notevole intensità evocativa e bellezza. Sottile e sapiente il regista non scivola nell’errore di strizzare scenicamente la fluviale complessità narrativa del romanzo ma da questo deriva una distillazione dei temi fondanti, cioè quelli di pena, crimine, delitto, colpa, perdono, la giustizia in generale e il libero arbitrio che agglomera intorno ai tre interrogatori tra l’assassino e il suo giudice cioè Porfirij Petrovic impeccabilmente incarnato da un asciutto e tagliente Sergio Basile e lo studente Rodiòn Romànovič Raskol’nikov interpretato da Nicolas Zappa che ne restituisce tutta la nevrosi febbrile, forse con qualche accento di troppo ma efficace in quel suo smarrimento che apre lo spettacolo e che via via si declina in allucinata e totale disperazione dove bene e male, orrore e compassione si intrecciano tragicamente sfociando in un grido . Ogni avvenimento si svolge nella testa di Raskòl’nikov, è questa la chiave che regge tutta la struttura dell’opera che articolata in tre luoghi deputati che sono quelli del romanzo cioè il tavolo dell’inquisitore, il letto dell’assassino, il condominio di porte sacrificato dai segni delle stelle di David, in cui sogno e realtà convivono, si srotola in un tappeto sonoro materico fatto di tintinnii di campanelli, di ticchettii, di clangori giocati su diverse note alternati allo scorrere di nastri sonori in continuum, una drammaturgia del suono di Giuseppe Rizzo che dà il tempo allo svolgersi delle azioni dilatate, oniriche, curate da un dettagliato, bellissimo disegno luci dall’effetto pittorico e che sinesteticamente ci fanno sentire il mondo interiore dello studente assassino che solo, senza il romanzo intorno, fa i conti con le estreme conseguenze delle sue azioni dettate da una filosofia che teorizza l’esistenza di uomini speciali i quali in virtù delle loro qualità intellettuali superiori possono considerarsi al di sopra delle leggi che scevrano il bene dal male. Ma che in realtà poi non sia così è la nuce del castigo che nell’ossessivo senso di colpa è già la pena in sé e proietta quel fantasma della vecchia usuraia/ Lisaveta che nel corpo e nella gestualità potenziata dal rallentamento e dalla magistrale tenuta di Serena Barone aleggia inquietante tra le porte del condominio dove erano state segnate le stelle di David a memento della “delicata questione ebraica” e che poi lei lava via col sangue che invade la memoria di Raskol’nikov . Non posso però non considerare anche il fatto che quando un’opera teatrale si rifà o deriva da un grande capolavoro letterario è inevitabile che possa essere percepito in modo diverso da coloro che hanno letto e conoscono il capolavoro originario e coloro che fruiscono lo spettacolo senza questo background. Io assisto alla rappresentazione con la memoria piena di immagini, di visioni, dostoevskiane, addirittura mi pare di sentire quell’odore di cavolo che invadeva ogni interno in terra russa e intendo dire che qui il plot che Collovà ha costruito tra parole, azione, gestualità, silenzi e fitta drammaturgia sonora ha coerenza, pienezza narrativa, ma la presenza dell’omissis riesce a farsi sentire, batte come un cuore lontano e in quel vocio sottile che fitto come il suono di un alveare invade la mente di Raskol’nikov steso sotto il peso degli eventi, mi giunge come il residuo vocale di tutti i personaggi, i fatti, i luoghi dell’immenso romanzo che ticchetta e respira dietro la teoria di porte che restano chiuse. Spero si aprano invece quelle di molti teatri per accogliere questo spettacolo assolutamente da vedere. Valeria Patera