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Dopo la battaglia impone una scelta radicale: Pippo Delbono o lo si accetta totalmente o altrettanto radicalmente lo si rifiuta, perché l'artista mette in scena se stesso, sempre e comunque, perché l'artista nel suo narciso legge il mondo e in quell'atto di condivisione che è il teatro ne offre la sua visione. Pippo Delbono o lo si ama o lo si odia, perché il suo teatro è di pelle, è fatto di pancia, è puro atto poetico, perché dà sempre l'impressione di farsi lì per lì davanti all'occhio disorientato dello spettatore. Questo vale per tutta la produzione di Delbono, ma forse vale soprattutto per
Dopo la battaglia, un atto teatrale volto a spalancare le porte sul buio dell'anima individuale e del naufragio collettivo di un Paese, il nostro, e di una civiltà, quella occidentale. Fra le mura di un carcere o di un manicomio Pippo Delbono racconta la disperazione e la speranza, racconta degli atti mancati di un'opera lirica che non si farà, ma anche di un farsi teatrale che si costruisce di incontri, in primis quello con Bobò e i suoi attori presi dalla vita e chiamati a gestire il loro essere come un atto di continua e struggente creatività. Così la scena iniziale è potente, è un fermo immagine vibrante che racconta di un progetto naufragato, un progetto legato ai 150 anni dell'Unità d'Italia, sfumato come sfumato e alla deriva è il Paese, un naufrago che Pippo incoraggia con la richiesta: «Mah, sì qui mettici il mare...». Ed è uno struggente sciabordare marino su cui si naufraga con dolcezza ed emozione, un abbandonasi alle onde in cui la rassegnazione pian piano fa spazio alla voglia di rinascita. Ed è questo in fondo che agisce
Dopo la battaglia, un'elegia che pone speranza e disillusione sullo stesso piano, che dice chiaro e tondo come stanno le cose, che denuncia la pochezza della politica ma anche la voglia di trovare una speranza che sta nella presenza di Bobò, sta nell'innocenza poetica di quell'uomo fatto di manicomio, sta nel contrasto fra l'ètoile che danza al suo fianco, sta nella pinguitudine di Gianluca o nell'eleganza stropicciata di Nelson che incoraggia la platea a battere le mani al ritmo del refrain di Pinocchio di Monicelli. E' dalle relazioni e dagli incontri che bisogna partire: c'è lo sguardo di maestra della mamma di Pippo, c'è l'omaggio di Delbono a Pina Baush, un omaggio danzato che l'attore balla con quella grazia scomposta della sua fisicità. Come sempre Pippo Delbono fa dialogare poesia, musica e immagini con una maestria unica, ci pone davanti agli occhi la complessità della vita, la sua poetica inafferrabilità, ci fa accettare il dolore e la morte che della vita sono parte e al termine tutto si scioglie in un applauso festoso che fa dire che forse
Dopo la battaglia si può sperare di rinascere e risorgere.
Nicola Arrigoni