La condanna di Don Giovanni non è bruciare nelle fiamme dell'inferno, ma è trascinarsi nella vecchiaia, vivere a lungo, magari con la stessa donna...
Don Giovanni a cenar teco di Antonio Latella si chiude con la scena del gran seduttore invecchiato, seduto a tavola con Sganarello, Donna Elvira e gli altri personaggi in una cena dalle luci caravaggesche, destinato a condividere nell'abbruttente vecchiaia quell'invito 'a cenar teco' del titolo che per tutto lo spettacolo ricorre ossessivo, come la presenza in scena di due tavoli su cui tutto accade e che diventano di volta in volta barca, letto, balcone, giaciglio e ovviamente tavola apparecchiata per il convitato di pietra che altro non è che lo spettatore.
Don Giovanni a cenar teco si apre con il seduttore bambino intento a giocare, rimproverato dal padre autoritario che lo chiama: «Giovanni a cena...». E mentre il piccolo Don Giovanni è richiamato dal padre, la bimba/Elvira gli strappa una promessa di matrimonio. Ed ecco il ribaltamento: Don Giovanni da carnefice si fa vittima, Don Giovanni non è, ma pretende di essere sotto lo sguardo delle donne che seduce, o da cui è sedotto in continua, estenuante ricerca di quel brivido che è l'innamoramento. Don Giovanni per Antonio Latella ha il volto fanciullesco di Daniele Fior, un seduttore con la vocazione del sedotto, colui che è in cerca continua di appagamento del desiderio che è senso di mancanza, colui che cerca l'assolutezza e perfezione dell'amore nelle figure geometriche perché definiscono, contengono, proteggono. Sganarello (Masimiliano Lozzi) è il narratore, è regista interno, è coro e posizione del mondo, è complice e servo. Ma in
Don Giovanni a cenar teco... è il pensiero sull'amore, sulla sua assolutezza, su Dio e sulle convenzioni del vivere comune che tiene banco e che trova la sua autenticità in un bordello, nella figura di Pierrot, un Giovanni Franzoni en travesti, figura fassbinderiana che interroga il pubblico, che dalla sua posizione di puttano, donna del desiderio incarna l'amore e non solo per il triangolo con l'occhio di Dio in mezzo alle gambe. Sublime, vera, commovente la scena del bordello con Mathurine (Candida Nieri), Charlotte (Caterina Carpio) e la stessa Donna Elvira da sposa di Dio a donna rifiutata (Valentina Vacca) dicono dell'amore, di quello che si compra, della necessità di essere oggetti del desiderio, di quella bocca a o pronta ad accogliere il piacere della fellatio... in tutto ciò non c'è nulla di volgare, c'è la sublimazione del donarsi all'altro e completar se stessi. Don Giovanni in tutto ciò cerca il quadrare del teorema di Pitagora e dell'amore come assolutezza, lo fa affamato di astrazione e sordo al dolore delle sue donne, lo fa perché alla fine egli è il frutto dello sguardo delle sue donne, è azione mossa dal desiderio di essere sedotte di Elvira e le altre. In tutto ciò Antonio Latella costruisce il suo teorema sull'amore e al sua assolutezza, lo fa col teatro, con lo scendere in platea di Pierrot, Sganarello e Don Giovanni che spezzano la quarta parete e fanno della platea il sepolcro del commendatore, dando a noi seduti il ruolo di morti, sepolcri dell'anima. Lo fa affidando Maurizio Rippa il canto dolente di quel 'a cenar teco' mozartiano su sedia a rotelle, lo fa regalando una messinscena che è puro pensiero sull'amore, che è atto d'amore nei confronti del pensiero, è consapevolezza che la condanna che ci accomuna non sono la morte e neppure le fiamme dell'inferno, ma è l'invecchiare con dentro il nostro inferno quotidiano. E quella cena di vecchi che sputano dal piatto coriandoli è una straziante ferita che sanguina e rimane impressa. Applausi commossi da un pubblico di fedeli e innamorati del teatro.
Nicola Arrigoni