di Sofocle
traduzione Fabrizio Sinisi
adattamento Andrea De Rosa
con (in o.a.) Francesca Cutolo, Francesca Della Monica, Marco Foschi, Roberto Latini, Frédérique Loliée, Fabio Pasquini
scene Daniele Spanò
luci Pasquale Mari
suono G.U.P. Alcaro
costumi Graziella Pepe
Produzione TPE - Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli - Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
Teatro Astra, Torino, venerdì 8 marzo 2024
La parola urlata e la parola allusa, la parola svelata e la parola non ascoltata, né tantomeno creduta: l’Edipo Re tradotto da Fabrizio Sinisi, con adattamento e regia di Andrea De Rosa, è un lucido manifesto della potenza del λόγος, cellula fondante l’esistenza umana intorno cui è confezionato uno spettacolo che arriva al centro per il racconto senza filtri della saga dei Labdacidi. Parola assoluta protagonista e strumento di una verità agognata quanto temuta, forse sempre conosciuta se quel “sei tu” che l’indovino Tiresia rivolge al sovrano di Tebe da un lato sprofonda Edipo in un irrefrenabile delirio, minandone certezze fino ad allora consolidate, dall’altro squarcia il velo su verità fino ad allora invisibili, o per lo meno non credute: nello spazio immaginato da Daniele Spanò, illuminato da fasci di luce gialla e bianca, ora frontali ora laterali, di Pasquale Mari, l’ampio palco del torinese Teatro Astra è prima occupato da pannelli su cui gli interpreti, il Coro o gli stessi membri della famiglia reale, si “appoggiano” come fedeli al muro del pianto invocando l’intervento divino per liberare la città dalla piaga della peste: a seguire quello stesso spazio si trasformerà nel tempio di Apollo, cavea semicircolare dove la narrazione diventa un viaggio all’inferno di sola andata, con le consolidate certezze di Edipo e della madre-moglie Giocasta sgretolate dal tarlo del dubbio che tanto Apollo quanto Tiresia insinuano nelle colpevoli coscienze. Una parola che non può non farsi verità per una vicenda ricostruita attimo dopo attimo, ed il cui svelamento irrompe in scena con la forza di una tempesta capace di travolgere cose e persone, aprendo i cassetti della memoria e rivelando la fragilità dell’uomo di fronte alla realtà. E se l’elemento divino alla fine è il messaggero grazie al quale la tanto temuta verità viene a galla, ecco che la stessa assume i contorni della maledizione, ponendo Edipo, ma anche lo spettatore di oggi, di fronte al dilemma se il prezzo della conoscenza valga le indicibili sofferenze che ne possono conseguire: per Edipo, è risaputo, lo scotto da pagare per “non aver voluto vedere” sarà la privazione della vista che in un ideale redde rationem il sovrano si autoinfligge accecandosi con i ferri prelevati dalla veste della suicida Giocasta, punizione tanto più esemplare e simbolica se è vero che la conoscenza nell’antichità classica era di fatto ricondotta alla percezione visiva. E per l’uomo moderno, interrogano neanche troppo velatamente De Rosa e Sinisi, vale la stessa propensione a voltarsi dall’altra parte confidando nell’equazione “non guardare per non sapere”? La risposta, ammesso che esista, non è unica né tanto meno universale: semmai a colpire degli ottanta minuti filati sono l’estremo rigore e la maniacale perizia che accompagnano una ricerca della verità da attuarsi attraverso la negazione della stessa. Impresa teatrale condotta in un impianto alimentato da numerosi dialoghi a due che vedono, schermitori l’uno di fronte all’altro sulla pedana della vita, i reciproci assalti di Edipo con Tiresia, Creonte e Giocasta, financo con un Apollo le cui parole aggiungono tragedia alla tragedia, depositarie come sono di misteri e segreti capaci di trasformare lo svelamento della verità in tragico rito collettivo. Tutto questo in scena è riferito da un gruppo di ottimi interpreti: da Francesca Cutolo e Francesca Della Monica, voce corale di una Tebe allo sbaraglio, all’ambiguo Creonte di Fabio Pasquini. Ed ancora Frédérique Loliée, intensa ed elegante Giocasta anche lei chiamata all’incontro/scontro con un destino già segnato, per arrivare a Roberto Latini cui De Rosa affida il compito di dar voce a Tiresia come ad Apollo, personaggio “intruso” multiforme depositario di parole e verità da cui nessuno può sottrarsi. Da ultimo l’Edipo di Marco Foschi, umanissima creatura la cui solidità lentamente si corrode e corrompe per diventare alla fine maschera di straziante dolore e follia: se il mito sofocleo lo vorrà cieco pellegrino a Colono, accompagnato dalla figlia Antigone, la parabola dell’Edipo di De Rosa si esaurisce in un dolente epilogo in cui, al cospetto di quell’umanità che ha scelto di non poter più vedere, rivolge un invito anatema preso a prestito dalle parole del Coro, “non dite mai di un uomo che è felice, finché non sia arrivato il suo ultimo giorno”. Roberto Canavesi