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FINZIONI – regia Alessandro Di Murro

"Finzioni", regia Alessandro Di Murro "Finzioni", regia Alessandro Di Murro

tratto dai racconti di JORGE LUIS BOGES
Regia di Alessandro Di Murro
Di Anton Giulio Calenda, Alessandro Di Murro, Tommaso Emiliani
Musiche originali Enea Chisci
Scene Paola Castrignanò
Con Matteo Baronchelli / Jacopo Cinque / Alessio Esposito / Lorenzo Garufo / Amedeo Monda / Laura Pannia
Assistente alla regia Ilaria Iuozzo
Direttrice Organizzativa Bruna Sdao
Progetto Grafico Cristiano Demurtas
Un progetto del Gruppo della Creta - produzione trilogia 2022-2024 Gruppo della Creta,
Fattore K - Con il sostegno del MIBACT - Con il patrocinio della Casa Argentina en Roma
Produzione Gruppo della Creta
Roma – Teatro Basilica Dal 17 al 20 novembre 2022

www.Sipario.it, 22 novembre 2022

Il Teatro Basilica di Piazza San Giovanni a Roma da quando è tornato a vivere tiene lontani i soliti Shakespeare, Moliere, Goldoni e Pirandello e propone, rischiando, lavori contemporanei o che riguardano testi letterari come queste Finzioni di Borges che include alcuni finissimi racconti labirintici del grande scrittore argentino di Buenos Aires. A proporli è un trio di giovani affiatati, che rispondono ai nomi di Anton Giulio Calenda, Tommaso Emiliani e Alessantro Di Murro, quest’ultimo pure nei panni di regista, il quale anche se, per la giovane età, ha sentito solo parlare del fenomeno delle cantine romane degli anni ’60 e ’70, propugnato e sostenuto dal critico teatrale Giuseppe Bartolucci, è come se qualcuno l’avesse ampiamente edotto, descrivendogli quegli spazi che si chiamavano Beat 72, Argot, Orologio, Cenacolo, Comunità etc..frequentati da Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo De Beradinis, Perla Peragallo, Giancarlo Nanni, Manuela Kusterman, Ugo Margio, Giuliano Vasilicò, Memè Perlini, Valentino Orfeo, Giancarlo Sepe e certamente ne dimentico tanti altri. Per me assistere a queste Finzioni borgesiane è stato come tornare in una di quelle cantine umidicce senza annoiarmi un solo attimo e assistere ad uno spettacolo stimolante, ben recitato da un gruppo di giovani attori tutti sugli scudi, menzionati in locandina, grazie pure ad una regia accuratissima con ottimi interventi video e audio e tecnici di grande qualità. A me rimane l’immagine dell’iniziale scena riproducente la straripante biblioteca di Babele e quell’idea dialettica per cui quando noi ci addentriamo in qualche cosa siamo niente e ciò che vediamo è la nostra cecità e che la vita sembra una mappa geografica, un labirinto senza fine. Quanto poi al giardino dei sentieri che si biforcano, titolo d’un racconto centrale dell’opera, sembra quasi un indovinello, una parabola, se si vuole, il cui tema è il tempo che non bisogna mai coniugare, lasciandolo lì in un cantuccio, senza mai menzionare il suo nome e quando lo si vuol fare bisogna ricorrere a metafore o a perifrasi. Sembrano quasi delle istruzioni di vita alla maniera di Perec, solo che qui hanno un altro odore e sapore: non quelli rinvenibili nella parigina Rue Saint-Sulpice con la sua esoterica chiesa, ma di luoghi fantastici che puoi reperire soltanto nei sogni, avendo presente che quando uno sogna di sognare subito dopo si sveglia. I protagonisti di questo spettacolo utilizzano dei moduli neri rettangolari utili a comporre letti, sedili, colonne, e si ha l’impressione d’incontrare l’imperatore Eliogabolo che scriveva nelle conchiglie le sorti che destinava ai suoi convitati o di vincere alla lotteria di Babilonia decretando che qualcuno scagli nelle acque dell’Eufrate uno zaffiro di Taprobana o che qualche altro tolga o aggiunga un “granello di rena ai grani innumerevoli della spiaggia”. Tutti possono scrivere e ognuno può essere uno scrittore in potenza o in atto, ricordandosi che la felicità più grande che procura la letteratura è l’invenzione. Gli otto racconti delle Finzioni confinano con i dieci degli Artifici di cui mi piace citare la morte e la bussola incentrato sull’investigatore Erik Lönnrot che tenta di risolvere una misteriosa serie di omicidi, seguendo uno schema cabalistico e la cui soluzione risiede in un triangolo anonimo e nella polverosa parola greca Tetragràmaton. S’individuano nello spettacolo alcuni accenni al capolavoro di Borges che è L’Aleph, in cui si ritrovano i suoi temi prediletti che sono la metafisica, la morte, l'immortalità, i labirinti, l'infinito. Spettacolo da ricordare e che sarebbe opportuno non restasse solo tra i mattoni rossi del Teatro Basilica. Struttura questa certamente meritoria anche per la cultura teatrale che cerca di diffondere tra i suoi adepti e fra le giovani promesse che cercano d’intraprendere questa antica e sempre nuova attività lavorativa. Mi riferisco alla lecture di Antonio Calenda, cui ho assistito una domenica mattina, basata sull’Orestea di Eschilo, l’unica trilogia pervenutaci di tutto il Teatro greco, che per Calenda e altri studiosi sarebbe una quadrilogia se si prende in considerazione il Proteo, il dramma satiresco dello stesso Eschilo, con la funzione di risollevare l'animo degli spettatori, incupito dagli eventi tragici, con una storia più leggera e comica. C’è anche da dire che Calenda, riferendosi all’Agamennone e anche al Proteo, vi scorge il concetto di pitagorismo, la dottrina elaborata da Pitagora a carattere etico-religioso, pure dogmatico, che muovendo dalle ricerche matematiche e musicali identifica la sostanza di tutte le cose, comprese le conoscenze misteriche orfico-dionisiache. «Il pitagorismo, fondendosi a Crotone con i valori della “Prima Italia”, in Calabria, ha dato il via al fenomeno della Magna Grecia, che fu così chiamata dagli stessi greci a causa dello stile di vita irreprensibile e per l’altezza della speculazione filosofica, e non per la ricchezza delle poleis o il fasto dei monumenti».

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Giovedì, 24 Novembre 2022 20:31

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