di Anton Čechov
regia di Alessandro Serra
con Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano,
Marta Cortellazzo Wiel,
Massimiliano Donato, Chiara Michelini,
Felice Montervino, Fabio Monti, Massimiliano Poli,
Valentina Sperlì,
Bruno Stori, Petra Valentini
drammaturgia, scene, suoni, luci, costumi Alessandro Serra
consulenza linguistica Valeria Bonazza e Donata Feroldi
realizzazione scene Laboratorio Scenotecnico Pesaro
Produzione Sardegna Teatro, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE –
Triennale Teatro dell’Arte di Milano.
Roma, Teatro Argentina, dal 25 febbraio (poi interrotto causa pandemia)
Ogni epoca è una fine d’epoca
Amputata di repliche e tournée (comunque rintracciabile a breve in connessione internet), questo scarno, icastico, rutilante (nella sua scenica ‘nudità’) “Giardino dei ciliegi”, rivisitato e diretto da Andrea Serra, resta probabilmente quanto di più stimolante e poeticamente effusivo la purtroppo decapitata stagione teatrale abbia offerto sino alla sua folrzata e frustrante interruzione.
In cosa consiste l’originalità del lavoro di Serra (enucleato in novanta minuti di rappresentazione)?
Innanzi tutto nel suo non glissare sulla componente essenziale, sulla sostanza socio-esistenziale di un familiare “redde rationem” che sancisce, per estensione allegorica, la fine di un’epoca (l’aristocrazia russa alla vigilia della rivoluzione d’ottobre), cui si accompagnano vistosi sintomi di indifferenza, incredulità, vacue frivolezze e sterili struggimenti (mondani e sentimentali). In una titillante, desolante rapsodia di anime in pena (ed ignare dell’ imminente ‘cataclisma’), ideate e sostanziate con stilemi da vaudeville, ovvero quelli cui Cechov tanto si raccomandava, diversamente Kostantin S. Stanislavskij e Vladimir Nemirovič-Dančenko che, al debutto del 1904 (Teatro d’Arte di Mosca), gli resero “cattivi servigi” desumendone una mega- dramma di crepuscolare naturalismo
Inappellabile, inoltre, un dato di fatto: Lopachin, figlio dell’antica plebe, con l’acquisto del terreno e la sua lottizzazione, sancisce un riscatto di “classe” cui la Storia assegnerà – dopo la conquista del Palazzo d’Inverno a la fine degli Zar- le sue acerrime distinzioni fra borghesia, proletariato, nuove oligarchie e apparati di partito.
E conseguentemente (a tale originalità) va ad accompagnarsi ad una lettura (e concezione) del luogo scenico, ove la “staticità vivacità” dei suoi personaggi (nella penombre e in forma di dagherrotipi) si fa elemento eloquente, evidente di un esodo (una “deportazione” verso quale altrove?) di uomini, cose e costumi di vita giunti al capolinea, alla resa di conti delle loro fatuità ed “esaurimento” di ragion d’essere.
Indubbiamente la suggestione delle immagini – leggo da una nota di sala- “sarà creata ricostruendo una sequenza di fotogrammi in bianco e nero, quasi come una galleria di foto ‘anticate’ e riprodotte con effetto seppia” Ma ciò che conta, dopo le intenzioni, è l’oggettiva capacità di Andrea Serra di servirsi magistralmente di un gioco di luci capace di “fare evaporare” i corpi riflessi su pareti grigie e chiari fondali mediante il fermentare di luci e ombre che appaiono “irrorate” di vita propria.
Quindi: una scenografia presente ma inesistente, in grado di suggerire la doppia empietà di una suggestione onirica obbligata a confrontarsi con la cruda realtà degli accadimenti, nel loro “infido”, mai pronosticabile divenire- più o meno come si vive oggi, in questa surreale sospensione di tempo, relazioni umane, infrante certezze, causa pandemia
Altra intuizione (nostra o di Serra?). Man mano che cresce e accresce il fascino della metafora, balugina e si sedimenta l’allegoria di un teatro sfrattato, sfollato, privato di interpreti e pubblico. Poichè ogni epoca è sempre una ‘fine epoca’, con la sola variante di ritualità, contesti e contenitori variabili. Tanto che l’esodo coatto dell’atavico gruppo di famiglia (Ljuba Andreevna, insieme alla figlia Anja, la governante tedesca Šarlotta Ivanovna, il fratello Leonid Andreevič. E il servo Jasa che resterà a “vegliare”, incredulo e mummificato, senza più “lari” da custodire) mi sembra alludere all’escomio dai luoghi scenici (verso streaming, verso le catacombe, verso il nulla?) di cui restiamo muti testimoni, incerti se avremo o meno il privilegio di “poterlo raccontare” a chi verrà…
Sino a stasera ci ostiniamo a sperarlo.
Angelo Pizzuto