L’epopea di colui che tutto vide
raccontata da Luigi Lo Cascio, Vincenzo Pirrotta e Giovanni Calcagno
testo e regia Giovanni Calcagno
composizioni video Alessandra Pescetta
musiche originali Andrea Rocca
voce Yukiko Matsukura / lira Eleni Sideris / contrabasso e violoncello Mark Adler /percussioni Thomas Elsher / chitarra ed elettronica Andrea Rocca; disegno luci Vincenzo Bonaffini
consulenza scientifica Luca Peyronel
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
al teatro Municipale, Piacenza, 14 febbraio 2023
Una landa desolata, alcune rovine, tre personaggi si stagliano controluce, tre narratori per un viaggio alle origini del mito: è l’immagine che regala Gilgamesh. L’epopea di colui che tutto vide con Luigi Lo Cascio, Vincenzo Pirrotta e Giovanni Calcagno che firma anche la regia. L’epopea di Gilgamesh all’inizio sconcerta, non è facile memorizzare i nomi e a tratti seguire ciò che viene narrato. Poi il ricordo va al manuale di epica della prima liceo – recuperato in seguito fra i libri dei figli – e quel racconto diventa non solo più chiaro, ma nel proseguire della narrazione un po’ inquieta e affascina al tempo stesso. Il motivo è presto detto: in Gilgamesh c’è tutto, ci sono i racconti omerici come quelli biblici, c’è concentrato in potenza la mitologia dell’Occidente. Piace per questo citare quanto scrive Alfredo Giuliani sull’epopea di Gilgamesh nel volume di recentissima uscita per Adephi, La biblioteca di Trimalcione (pagine 392, euro 35): «Dobbiamo leggerla, sebbene sia sforacchiata di lacune, perché ci offre un’affascinante mistione di arcaicità e di raffinatezza di pensiero, episodi di intensa bellezza e tratti di penetrante originalità destinati a restare tali per quanto lungo è il tempo che possiamo contare; e soprattutto perché ci incanta la sua struttura: la ricerca della conoscenza attraverso le peripezie nell’orrendo e nel meraviglioso (schema e seme di pressoché tutte le opere letterarie)».
Così nell’ascoltare e nel condividere il dolore di Gilgamesh per la morte dell’amico Enkidu, s’intravvede il dolore di Achille per la morte dell’amico Patroclo. C’è poi la discesa agli inferi, c’è l’umanissima ricerca di un’immortalità possibile, ricerca scaturita dall’interrogativo del perché l’uomo debba morire o semplicemente aver consapevolezza della morte. L’attraversare il mare che porta alla dimora di Utnapistim insieme alla moglie sopravvissuto al diluvio ricorda i flutti dei fiumi infernali omerici prima e poi danteschi. Il racconto del diluvio voluto dagli dei per annientare il genere umano è una sorta di anticipazione della narrazione biblica di Noè e l’arca della salvezza. In questo viaggio negli archetipi del mito c’è il piacere dell’ascolto e la consapevolezza che un’unica narrazione accomuna l’umanità intera. Calcagno – regista – ha adattato il testo e diretto lo spettacolo, dando voce a una sua dolcissima ossessione nei confronti dell’epopea di Gilgamesh e delle eco letterarie che questa regala. Calcagno ha deciso di condividere questa sua passione con due attori come Lo Cascio e Pirrotta, diversi per stili e intensità recitativa, ma accomunati dalla medesima origine sicula. Vorrà pur dire qualcosa.
Questo monologo a tre procede dunque con altrettanti stili formali differenti e ruoli diversi. Calcagno ha conservato per sé il ruolo di narratore sapienziale, uomo del deserto che tramanda la vicenda di Gilgamesh, quasi in anticipo rispetto alla consegna alle tavolette d’argilla della lingua sumerica e ancor prima di quella accadica. Vincenzo Pirrotta declina il suo narrare attraverso il modello del cunto siciliano, che dà il ritmo alle scene di battaglia e conferisce quella comunicazione diretta e di pancia propria dei raccontastorie popolari. Luigi Lo Cascio veste i panni di un archeologo e il suo dire è un dire poetico, è il portatore della storia diventata libro, reperto scoperto, così come pulisce dalla sabbia le rovine di Uruk, con altrettanta passione dà voce alla poesia della vicenda umanissima di Gilgamesh. Tutto ciò procede in parallelo, senza mai incrociarsi, tre modalità narrative di un'unica epopea che in sé racchiude tutto. Si ha l’impressione che la mossa passionale che ha spinto Giovanni Calcagno a mettere in scena l’epopea di Gilgamesh non abbia trovato la giusta lucidità, un disegno registico efficace, forse perché l’attore è troppo immerso nel suo racconto e non può godere della distanza tale da gestirne l’andamento scenico. L’effetto è quello di una giustapposizione di elementi: così come i tre personaggi non s’incontrano mai e procedono per strade parallele, così l’apparato video e scenico appare ridondante, ripetitive, le scenografie troppo descrittive e tutto finisce col ridursi a una mera rappresentazione e narrazione, quando le parole del poema sumerico hanno altezza di pensiero astratto che meritava maggior profondità di analisi.
Nicola Arrigoni