di Anton Čechov
traduzione Danilo Macrì
con Nicolaj Ivanov Filippo Dini, Anna Petrovna Sara Bertelà, Conte šabel'skij Nicola Pannelli, Pavel Lebedev Gianluca Gobbi, Zinaida Savišna Orietta Notari, Saša Valeria Angelozzi, Dottore L'vov Ivan Zerbinati, Marfa Babakina Ilaria Falini, Michail Borkin Fulvio Pepe, Kosych Filippo Dini, Avdot'ja Nazarovna Sara Bertelà, Primo ospite Fulvio Pepe, Secondo ospite Nicola Pannelli, Gavrila Ivan Zerbinati;
assistente alla regia Carlo Orlando;
scene e costumi Laura Benzi,
musiche Arturo Annecchino, Luca Annessi (assistente); luci Pasquale Mari,
regia Filippo Dini,
produzione Fondazione Teatro Due, Teatro Stabile di Genova,
al teatro Ponchielli, 17 gennaio 2017
Ed è ancora il pubblico e la sua reazione che fa da filo conduttore al racconto di uno spettacolo classico, che classico non è più, che rischia di essere una novità: Ivanov di Anton Cechov, nella versione registica e interpretativa offerta da Filippo Dini. Piace raccontare l'Ivanov di Cechov, riletto da Filippo Dini, partendo dalla reazione di due spettatrici del Ponchielli in un teatro non certo affollato; ed anche questa la dice lunga sull'idea di classicità, su i titoli imprescindibili, sui classici che riempiono i teatri, magari con studenti e affini. Fare Cechov una volta era – se non una garanzia – una certezza: si andava a pescare nello zoccolo duro degli spettatori del teatro, quello della grande tradizione... ma quel pubblico forse è in via di estinzione e Cechov finisce sempre più con il rappresentare il sinonimo di noia e lunghi discorsi di una borghesia fallita, annoiata appunto, un po' logorroica e inconcludente. In una parola: la fotografia della nostra condizione presente. Ma che sia questo il motivo per cui Cechov spaventa? Sta di fatto che dal pubblico e dalla sua reazione sembra interessante dover partire per raccontare di un allestimento che si nutre di eredità teatrali, di uno spettacolo che ondeggia fra citazioni registiche e cinematografiche, gioca per apposizioni di stili in cui contemporaneità e storicità si intersecano in un miscuglio di tonalità che puntano sulla varietà in estensione piuttosto che sull'intensità in profondità.
Ivanov (Filippo Dini) è in scena e da dietro Borkin (Fulvio Pepe) gli punta la pistola. La didascalia richiederebbe un fucile, ma usare la pistola è senza dubbio esercitare una sorta di anticipo del finale. Una signora afferma: «Ma inizia dalla fine?», riferendosi al suicidio che chiude il testo cechoviano. Ivanov si spara, sopraffatto dalla noia e dall'aridità del suo cuore. Alla fine del primo tempo (che racchiude i due atti) una signora soffre alla vista di Ivanov che amoreggia con Sasha (Valeria Angelozzi), speranza di un ritorno di vita per il quarantenne possidente, squattrinato e annoiato, mentre da dietro la finestra lo vede Anna Petrovna (Sara Bertelà), la moglie, malata di tisi che ha abbandonato la famiglia ebraica, la sua religione per seguire quell'uomo che ora la fugge e non la ama più. Questi due punti di vista convivono nell'Ivanov portato in scena da Fondazione Teatro Due di Parma e dallo Stabile di Genova. In un allestimento di rigida impostazione tradizionale la vicenda di questo Amleto di provincia – come lo stesso Ivanov si definisce – è un concentrato della poetica cechoviana che viene accolto da chi conosce l'autore russo con il piacere di ritrovare un caro vecchio amico, un po' incanutito ma sempre pungente, capace di commuovere e inquietare. Al tempo stesso la vicenda, così come è, resa con colorata e indefinita connotazione temporale dalla regia di Dini, dai costumi e scene di Laura Benzi viene accolta e partecipata anche da chi non necessariamente ha dimestichezza con la nevrastenia di quella borghesia russa che vive sull'orlo dell'abisso individuale e collettivo, che cita Hegel e Bakunin come oggi si citerebbe Bruno Vespa o Gad Lerner.
Ed è questa fruizione diversificata e accomunante che fa di Ivanov uno spettacolo che funziona, che ruba qua e là dagli stereotipi del genere: i colpi di pistola, certo nervosismo recitativo un po' di maniera, lo spiare dalla finestra – come in Zio Vanja di vent'anni fa messo in scena da Peter Stein per il Due di Parma - o ancora la volontà di giocare su un avvicinamento temporale quanto accade, grazie a costumi novecenteschi, ciò per rendere meno estranea quella borghesia di fine XIX secolo. Al tempo stesso la figura del dottore con una certa somiglianza con Cechov e la caricatura di Gravila lo stereotipo del servo - entrambi i ruoli interpretati da Ivan Zerbinati - sembrano il giusto riconoscimento a chi è venuto a teatro per vedere Cechov comme il faut. E allora ecco che il confronto fra Ivanov e Sasha su un divano, senza fronzoli, richiama certo Pinter, quello dai toni più colloquiali, ma non per questo meno crudeli: si veda Tradimenti. O ancora il dramma si alterna al comico grottesco con citazioni dal migliore vaudeville, ma sempre con una tensione al tragico che non si compie... Che dire poi della chiusura cinematografica, un vezzo, un meccanico precipitare nello sconcerto davanti al suicidio di Ivanov, squattrinato e insoddisfatto, schiacciato dalla sua insoddisfazione. Le atmosfere di quell'umanità indebitata, schiava del denaro e in fondo prosciugata dalla noia sono restituite con elegante ambiguità dall'Ivanov di Filippo Dini che si fa forte di un mestiere teatrale che sa frequentare e far funzionare la sintassi della tradizione, concedendosi ogni tanto qualche variazione, regalandosi il vezzo di fare i baffi alla Gioconda per dir così, al fine di raccontarci come Ivanov e la sua disperatamente allegra compagnia ci rispecchino un po'.
Nicola Arrigoni