di Roberto Andò
tratto da È una commedia? È una tragedia? Di Thomas Bernhard traduzione di Vittoria Rovelli Rubert,
Il mistero del processo di Salvatore Satta
regia Roberto Andò
Con: Fausto Russo Alesi, Filippo Luna, vocalist Simona Severini, Vincenzo Pasquariello,
Ramona Polizzi, Giuseppe Orto, Massimo Cimaglia, Enzo Campailla, Antonio Alveario,
Giovanni Piscitelli, Donatello Nicosia, Carmelo Finocchiaro, Luciano Fioretto,
Viviana Militello, Niall Dowling, Salvatore Tornitore, Massimo Giustolisi,
Irene Sposito, Susanna Basile, Carmen Bottari, Sergio Trefiletti,
Rita Abela, Oliver Petriglieri, Flora Rossitto
Installazione scenica e luci Gianni Carluccio
Costumi Gianni Carluccio e Antonella D'Orsi
Suono Hubert Westkemper. Musiche Marco Betta
Produzione: Teatro Stabile di Catania
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival, Napoli Teatro Festival Italia, Nuovo Teatro di Marco Balsamo
al Teatro Verga di Catania dal 9 al 14 gennaio 2018
In attesa di giudizio di Roberto Andò ha visto la luce lo scorso giugno all'interno del X Napoli Teatro Festival nella fascinosa location del Maschio Angioino in cui le installazioni sceniche di Gianni Carluccio (che firma pure luci e costumi, quest'ultimi con Antonella D'Orsi) avevano un respiro maggiore rispetto al palcoscenico del Teatro Verga di Catania particolarmente costipato da sembrare un deposito d'un rigattiere. Assumendo complessivamente la scena l'aspetto d'un affollato girone dantesco, ma anche d'un dipinto di Balthus o di James Ensor in cui, come in un fermo immagine, vi sono raffigurati degli assassini nell'atto di compiere i loro crimini: l'infermiera che inietta veleno ad un ammalato, un tale che sta affogando una donna col cuscino, un uomo col passamontagna che sta infilzando il coltello nel collo d'una donna, un ragazzo inginocchiato davanti ad un prete e altre forme di violenza, avendo alle spalle una sfilza di toghe rosse bordate di bianco ermellino che pendono dalla graticcia. Sono tanti gli individui che nel corso dei vari processi giurano d'essere innocenti, avendo ai due lati l'avvocato difensore e il pubblico ministero e alle spalle il giudice, una sorta deus ex machina che alla fine deciderà se condannare o assolvere gli imputati. Per dimostrare l'assunto, Roberto Andò ricorre al testo È una commedia? È una Tragedia? (1967) di Thomas Bernhard, autore a lui caro già frequentato nel recente passato e ad un libello del giurista e scrittore nuorese Salvatore Satta scomparso nel 1975 titolato Il mistero del processo che assembla una serie di saggi scritti tra il 1949 e il 1958, con innesti dello stesso Andò, alcuni enunciati nello spettacolo da un ispirato Fausto Russo Alesi quasi febbricitante nei panni d'un giudice che così si esprime: «Ma il processo? Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità, che lo scopo è l'attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo, e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità: se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più che la terra, gli errori dei giudici». In evidenza nella prima parte, quella bernhardiana, la presenza suggestiva di Filippo Luna ovvero dell'uomo vestito da donna avvolto da un ampio paltò e deambulante per tutta la scena istericamente su femminili scarpe rosse con tacchetto, gli stessi abiti forse della sua donna affogata in acqua (Ramona Polizzi) che giace lì a terra nuda sotto un telo di plastica trasparente e che nonostante abbia espiato l'intera condanna, adesso è dilaniato dal pensiero per non aver subito una giusta punizione per un delitto commesso ventidue anni prima, dando al giudice l'opportunità di riflettere cos'è il processo e che senso abbia: somigliando il duetto ad un gioco, ad una pièce teatrale, priva di lucidità, al punto da non capire se trattasi d'una commedia o d'una tragedia. Un labile confine in cui si contrappone la verità storica di ciò che è stato e quella attuale di ciò che è il processo e in cui si definirà l'innocenza o la colpevolezza dell'accusato. Argomenti che in maniera folle e disperatissima il giudice cercherà di mettere per iscritto su un trattato, promettendo a se stesso che una volta finito lo darà alle fiamme. S'aggira intanto sulla scena la vocalist Simona Severini con benda agli occhi, una sorta di dea della giustizia che intonerà Voce 'e notte di Di Giacomo (che cantava Rondinella e pure Di Capri) e l'Alleluia di Leonard Coen, mentre il resto della compagnia riprende in coro Attenti al gorilla di Brassens (che cantava De André) con Giuseppe Orto nei panni del peloso animale che simulerà uno stupro necrofilo nei confronti della ragazza nuda di prima. Al testo di Bernhard, senza alcun stacco, si legano alla perfezione gli scritti di Salvatore Satta, davvero tosti, per la scarsa stima che il giurista e scrittore doveva nutrire nei confronti della categoria dei giudici, restituiti da Andò in questa sua labirintica regia, come vuoti involucri in toga rossa o fantocci in toga nera, così come appaiono le tre componenti del processo penale: l'accusa (Enzo Campailla), la difesa (Massimo Cimaglia) e il giudice (Antonio Alveario), che si esprimono in playback come degli automi e che argomentano con frasi stereotipate e espressioni latine. In scena è presente pure Gesù (Giovanni Piscitelli con la voce di Paolo Briguglia) vittima d'un processo farsa in cui a condannarlo contribuisce un nugolo di donne che grida a Ponzio Pilato ( Donatello Nicosia con la voce di Renato Scarpa) di crocefiggerlo, sembrando costui sempre più dubbioso a condannarlo e sempre lì pronto a lavarsi le mani in una bacinella. Alla fine si ha la percezione che chi amministra la giustizia lo faccia in modo arbitrario e si resti quasi stupiti per come vittime e carnefici facciano parte della stessa medaglia: tutti colpevoli in attesa di giudizio. Lo spettacolo si fa apprezzare per le musiche di Marco Betta echeggianti motivi schumanniani e chopiniani, suonate dal vivo da Vincenzo Pasquariello pure nei panni d'un cameriere, per il suono di Hubert Westkemper e per i numerosi personaggi e figuranti in scena, una ventina, mentre a Napoli erano il doppio.
Gigi Giacobbe