Daniele Pecci
di Luigi Pirandello
regia Guglielmo Ferro
con Rosario Coppolino e Maria Rosaria Carli
e con Giovanni Maria Briganti, Adriano Giraldi,
Diana Höbel, Marzia Postogna, Vincenzo Volo
scene Salvo Manciagli
costumi Françoise Raybaud
musiche Massimiliano Pace
Produzione Arca Azzurra Teatro
La Contrada Teatro Stabile di Trieste
ABC Produzioni
Teatro Quirino Vittorio Gassman dal 6 al 18 novembre 2018
Come osserva Giovanni Macchia, l'opera di Pirandello procede spedita verso il teatro. Non v'è riga, in questo scrittore, che non sia dominata da un'azione drammatica. Nulla di strano, quindi, nel voler trasporre per le scene Il fu Mattia Pascal.
A curare la versione drammaturgica del più noto fra i romanzi di Pirandello è Daniele Pecci. Il quale dà l'impressione di aver voluto rendere omaggio alle due anime dello scrittore siciliano: la narrativa e la teatrale.
Lo spettacolo risulta così diviso in due. Nel primo atto prevale il racconto che il protagonista – Mattia Pascal – fa al suo padre confessore nonché capo sul luogo di lavoro (una biblioteca): Don Eligio. Vi si apprendono le traversie che Mattia ha attraversato, le nefandezze commesse e quelle subite. In tal modo, poco spazio v'è per l'azione. Molta, al contrario, per un racconto che si svolge quasi tutto in prima persona.
Il secondo atto, al contrario, è dominato da uno spiccato senso teatrale. Qui Mattia Pascal si è spacciato per morto ed è fuggito a Roma sotto le mentite spoglie di Adriano Meis, nella speranza di mutare vita e regalare a se stesso un'esistenza dignitosa. Ma finirà per trovare le stesse nefandezze che credeva essersi lasciato alle spalle. E si torna, infine, al luogo da cui si è partiti: la biblioteca. Dove al redivivo Mattia, che ormai ha perso tutto – compresa la sua vita, oltre alla famiglia – non rimane che raccontare le sue penose vicende e, di tanto in tanto, portare dei fiori sulla sua tomba.
In questa riduzione, sono presenti i tratti salienti della poetica pirandelliana. Fra tutti, quel senso claustrale che pone i personaggi come dentro ad una stanza della tortura dove sono letteralmente inquisiti (dall'autore e dal pubblico). Così facendo, ne emerge un Mattia Pascal assediato, braccato dai fantasmi d'un passato mai del tutto risolto e da dinamiche – sociali e di rapporti umani – false, laide, squallide. Per accentuare questo senso di asfissia, Pecci adotta uno stile recitativo goffo, impacciato nei movimenti, dai toni dimessi. Il suo Mattia Pascal è pavido, raramente coraggioso (quando accade è subito pronto a trarsi indietro) ed è indegno anche della maschera ch'egli ha posto su di sé. Par quasi un inetto sveviano di fronte al quale si resta indecisi fra il disprezzo o la compassione. La modulazione vocale adottata da Pecci accentua tale aspetto: essa ha toni volutamente sfumati, ma mai tinte nette e decise.
Uno spettacolo buono nell'insieme. Che all'inizio stenta a prendere il volo salvo acquisire, man mano, una discreta ritmica scenica procedendo, così, spedito.
Vien da chiedersi: chi sono i moderni Mattia Pascal? Esistono? Li si potranno mai incontrare? E come si comporterebbero? In che modo Pirandello parlerebbe loro? E le sue parole come verrebbero recepite? Domande che richiedono risposte impegnative. Ma che lo spettacolo in scena al Quirino in questi giorni elude, quasi proteggendosi dietro una patina d'inizi Novecento che ce lo fa sembrare distante da noi.
Pierluigi Pietricola