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HAMLET - regia Antonio Latella

"Hamlet", regia Antonio Latella "Hamlet", regia Antonio Latella

di William Shakespeare
traduzione Federico Bellini
drammaturga Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe, luci Simone De Angelis
musiche e suono Franco Visioli
con Federica Rosellini, Anna Coppola, Michelangelo Dalisi, Francesca Cutolo,
Fabio Pasquini, Francesco Manetti, Ludovico Fededegni,
Stefano Patti, Andrea Sorrentino, Flaminia Cuzzoli
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Piccolo Teatro
Studio Mariangela Melato, Milano, 20 giugno 2021

www.Sipario.it, 28 giugno 2021

Antonio Latella ad ogni suo spettacolo conferma la volontà di costruire un sistema di pensiero sul teatro o forse di fare del teatro un sistema di pensiero. E si dice questo non tanto perché il regista dichiara di essersi fatto una promessa: ogni dieci anni affrontare Amleto, dando sistematicità a un confronto col testo del Bardo per eccellenza. Lo si afferma con forza perché nel procedere registico ed estetico, ma anche politico e poetico di Antonio Latella c’è il preciso obiettivo di non dare mai per scontato l’atto creativo, non assumere passivamente le potenzialità ideative e di pensiero nel fare teatro.
Dal ciclo shakespeariano, a quello genetiano napoletano, dai lavori sulla drammaturgia americana, alla riflessione sulla menzogna, da Studi su Media a Santa Estasi, dall’Arlecchino ad Hamlet, Latella lavora per blocchi tematico/drammaturgici, per concetti, è il Picasso del teatro. Dire di Hamlet è dire di una necessità corale di ascolto, è dire, con sempre maggiore insistenza, che Antonio Latella è una sorta di reazionario della scena, si pone sulla via potente e assoluta della sottrazione, innesca un confronto teso con la parola e il testo. Non è un caso che la prima parte di Hamlet veda in scena tutti i personaggi di bianco vestiti, seduti sulle panche del Teatro Studio e nel mezzo un inginocchiatoio per Amleto. A fare da narratore/regista interno kantoriano è Orazio (Stefano Patti), il testimone, il coreuta di quella storia fatta di parole, parole, parole…
Gli attori avrebbero dovuto essere in mezzo al pubblico – parti essi stessi di una comunità – nel teatro pre-Covid, ora l’effetto col distanziamento è meno evidente, ma non meno simbolicamente pregnante. Eppure quell’appartenere al coro, quel dire e dirsi dalla platea/piazza è un invito all’ascolto, è una riduzione di gesti, è la rappresentazione di una prossimità, è la parola che germoglia nel corpo della comunità e che ci tocca, ci è prossima, ci coinvolge. In questo ascolto l’Amleto di Federica Rosellini (un principe di Danimarca assoluto, potente e credibile in ogni suo accento) è una sorta di penitente, è coreuta di un rito, il rito del teatro, il rito della parola che si fa carne/attore e che si compie nel dirsi davanti ad un’assemblea, alla corte di Elsinore come al pubblico assembleare dello Studio. E se ecclesia è assemblea, si capisce perché l’Hamlet di Latella si offra come un rito laico della sacralità del teatro. Lo spazio e il tempo intessono l’agire dell’attore e il fruire dello spettatore e allora l’ingresso dei comici – coloro che sono chiamati a svelare con la finzione la verità – è un emozionante ingresso di una serie di costumi che appartengono alla storia del Piccolo Teatro di Milano, dai costumi cechoviani del Giardino a quelli dell’Arlecchino per chiudere con gli abiti di Lehman Trilogy di Ronconi. Quelle anime/spettri di attori compongono un cerchio all’interno del quale si muove Amleto chiedendo loro di aggiungere alcune battute alla storia di Gonzalo per sbugiardare l’omicidio del padre per mano dello zio che ha preso in sposa la madre. E se la prima parte caratterizzata dal bianco di costumi oversize pare concentrarsi sull’ascolto e sul germinare della parola nel coro, nelle altre parti gli attori sono vestiti tutti a lutto con grandi gonne, abiti femminei e talari al tempo stesso. L’Amleto latelliano procede con grande coerenza e rigore e lo fa definendo lo spazio in cui si muovono gli attori in un dialogo costante con la platea – lo impone il teatro Studio – ma al tempo stesso evitando qualsiasi tipo di eccesso, chiedendo a tutti gli interpreti di officiare un rito e a noi che vi assistiamo, insieme a Orazio, di essere testimoni di quella storia fatta di follia e lucidità, costruita di parole e dalla parola teatrale agita e disvelata.
Nel centro della scena il grande rettangolo ospita lo stagno in cui Ofelia di Flaminia Cuzzoli si tuffa per poi riemergere corpo morto, galleggiante nelle vesti nere e traslucide come in una scena di Lezioni di piano, mentre il fratello Laerte (Ludovico Fededegni) la coccola, la piange, meditando vendetta, dopo che ha perso anche il padre Polonio (Michelangelo Dalisi perfetto, sempre presente a sé stesso e agli altri). Quello stagno è poi destinato a diventare il terreno in cui i becchini clown scavano una fossa e in cui il principe di Danimarca individua il teschio del vecchio Yorik. E sullo sfondo di quel quadrato di terra cimiteriale gli attori stanno nei banchi di chiesa, ma l’immagine è quella della Classe morta di Kantor, mentre il narratore/regista Orazio dà la parola a Re Claudio (Francesco Manetti), alla regina Gertrude (Francesca Cutolo), a Rosencrantz e Guildstern (Andrea Sorrentino) vittime inconsapevoli di un ruolo senza né arte né parte, tutti coinvolti in rondò che sprizza inquietudine e disperazione. Il racconto del duello finale fra Amleto e Laerte – alle spalle degli attori i costumi teatrali impacchettati sembrano un esercito di fantasmi -, la morte di tutti per una serie di fallimenti è nelle parole di Orazio, è narrazione, è testimonianza di una storia che chiede di essere passata di bocca in bocca per non essere dimenticata. E questo fa Antonio Latella, fa memoria dell’atto responsabile del teatro, dell’oralità incarnata della scena, del passaggio da attore a spettatore di quel racconto che impone a tutti di non essere indifferenti. Tutto ciò si compie in un tempo lungo e sospeso e non solo per le sei ore della durata di Hamlet. Il cast è perfetto, non una sbavatura, tutti concentrati, tutti pronti ad annullarsi per esaltare la potenza della parola poetica. Si crede ad ogni parola, si crede ad ogni gesto degli attori che sono una prova provata che il teatro si compie nell’incarnazione della parola poetica che s’invera nel qui ed ora davanti a un coro/pubblico. Da qui riparte Antonio Latella, con Hamlet ha messo in scena la sua necessità di «sciacquar i panni in Arno», il fiume del teatro. Applausi affaticati, ma pur sempre applausi.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Lunedì, 28 Giugno 2021 17:12

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