di Sławomir Mrożek
Regia, ideazione luci e spazio scenico Roberto Zorn Bonaventura
Interpreti: Giulia De Luca, Francesco Natoli, Gianfranco Quero e Michelangelo Maria Zanghì
Costumi: Cinzia Preitano
Maschere: Nathalie Casaert
Aiuto regia: Gabriele Crisafulli
Collaborazione: Monia Alfieri e Martina Morabito
Locandina: Riccardo Bonaventura
Produzione Nutrimenti Terrestri e Castello di Sancio
Teatro dei 3 Mestieri di Messina dal 28 al 30 aprile 2023
In alto mare di Slawomir Mrozek è un piccolo capolavoro di drammaturgia, pubblicato nel 1961, ascrivibile al cosiddetto Teatro dell’Assurdo. Roberto Bonaventura mettendolo in scena al Teatro dei Tre Mestieri lo fa iniziare con la canzone cantata da Loredana Bertè, che ha solo lo stesso titolo della pièce di Mrozek, che poco ha a che vedere con i tre naufraghi senza nome, indicati solo per le loro fattezze fisiche, forse neanche per queste: il grosso di Michelangelo Maria Zanghì è il più magro dei tre, il medio Francesco Natoli, è il più grassottello, il piccolo Gianfranco Quero è il più anziano. Li vediamo lì eleganti in abiti neri con farfalla o cravatta su una zattera di legno a piedi nudi, preceduti nel parlare dall’intervento di Giulia De Luca con mascherina, che per voce del suo autore polacco dà delle dritte agli spettatori su come fare a seguire quanto vedranno: « Queste pièces… non sono un'allusione a qualcosa di particolare e neanche una metafora, per cui non bisogna cercare di decifrarle… ogni tentativo di "sottolineare ", di "interpretare" e di caricare esageratamente i testi dell'autore di queste piccole pièces sono risultati dei fiaschi dal punto di vista artistico». Fedele al dettato di Mrozek, Bonaventura non ha forzato la mano verso il comico, semmai evidenziando una lieve clownerie, facendo parlare i protagonisti senza enfasi, rispettando ognuno i propri punti di vista, lasciando poi agli spettatori liberi di pensare quello che vogliono. Il problema principale dei tre naufraghi è che sono finiti i viveri e che uno dei tre deve essere mangiato per salvare gli altri due. Ricordo che una cosa del genere (anche se il cannibalismo fu perpetrato su corpi già morti) accadde anni fa quando precipitò un aereo su montagne sperdute e i superstiti, per sopravvivere, dovettero mangiare i corpi di alcuni passeggeri. Certamente l’operina di Mrozek si tinge di una ferocia non comune, perché qui i tre personaggi sono vivi e bisogna decidere chi dei tre dovrà morire. Democraticamente si decide di votare e mettere la propria preferenza dentro un cappello. Pare che il piccolo abbia la peggio, quand’ecco sbucare dal cilindro un quarto foglietto e invalidare la votazione. I tre sono al punto di partenza. Che fare? Pare che tra il grosso e il medio ci sia silenziosa un’intesa per mettere sotto il piccolo. Infatti dicono di essere orfani, di non avere nessuno al mondo e meritano di restare in vita, a differenza del piccolo che ancora ha una madre cui badare: ma non per molto, perché in maniera surreale spunta veloce su un carrellino a rotelle un postino - la stessa De Luca con grossa protesi al naso - (quasi come quell’erotico diavolo di Silvia Pinal su una bara veloce in Simon del deserto di Luis Buñuel) e gli consegna un telegramma su cui sta scritto che sua madre è morta, facendo osservare ai colleghi che adesso anche lui è un orfano, e tutti e tre sono candidati ad essere mangiati. Adesso la disputa viene giocata su chi ha il padre più povero, argomentando il grosso d’essere figlio d’un taglialegna analfabeta, subito smentito dall’arrivo d’un suo servitore (sempre De Luca) che lo chiama Conte, dunque figlio d’un nobile facoltoso, a differenza del piccolo che ha avuto un padre cancelliere al tribunale. Il medio fa lo gnorri senza dir nulla, anzi avallerà la tesi del grosso che nessuno è venuto a cercarlo, diventando la loro un’alleanza solida, tanto d’accusare il piccolo d’essere lui il bugiardo e che pertanto dovrà scomparire dalla società e il modo migliore per realizzare questo postulato sarà quello d’offrirsi come alimento alla società stessa. Ecco dunque il poverino spogliarsi dei suoi abiti, affilare il medio coltelli e mannaia, apparecchiare la tavola il grosso compresi i fiori in un vasetto, esprimendo il piccolo il desiderio di lavarsi i piedi e fare un discorso sulla libertà. Una libertà che non significa niente e che soltanto la vera libertà significa qualcosa, perché è vera, e quindi migliore. Parole che ripete come un disco di grammofono che si è incantato, mentre il medio cercando il sale in una valigetta trova carne e piselli tra la felicità del piccolo che forse s’è salvato la pelle. Ma non è ancora finita perché riappare in chiusura, sempre nei panni dell’autore, la giovane De Luca che rivolgendosi al pubblico dice che «Certi elementi della cosiddetta " teatralità ", si sono banalizzati, appiattiti, diventando dei feticci fine a sé stessi e… pur sapendo, ciò che queste pièces non sono, non so che cosa esse siano, ma questo non fa parte dei miei doveri. Questo, ormai, è il teatro che deve saperlo». Spettacolo molto attuale che pone sugli scudi i tre protagonisti, Francesco Natoli, Gianfranco Quero e Michelangelo Maria Zanghì, bravissimi davvero, per i temi che pone, riguardanti l’inconcludenza della politica, la falsità e l’opportunismo dei rapporti sociali, l’impossibilità di scappare da un mare metaforico che ci circonda, un mare di m…. , che minaccia continuamente di inghiottirci.
Gigi Giacobbe