da I fratelli Karamazov di Fëdor Dosoevskij, con César Brie, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Valvassori; adattamento e regia César Brie; musiche originali Pablo Brie; scene Antonio Panzuto; costumi Mia Fabbri; luci Paolo Pollo Rodighiero, produzione Ert Emilia Romagna Teatro
Cremona, Teatro Ponchielli, 27 febbraio 2013
Schierati ai lati di una sorta di tappeto/pedana delimitata da corde — i legami fra i personaggi — la vicenda dei Karamazov è narrata e agita nel suo susseguirsi di intrecci, di amori, rancori e vendette. Lo spazio è quello, o per lo meno lo richiama, dell'Arlecchino servitore di due padroni di Giorgio Strehler, una sorta di spazio teatrale a vista, in cui attore e personaggio convivono, in un dichiarato svelamento della finzione che Strehler mutuava da Brecht e che César Brie fa proprio come molti segni che si rincorrono ed emergono dal suo I Karamazov, centone teatrale in cui la tradizione del terzo teatro s'incontra con quello di regia in un gioco tanto callografico quanto vuoto. César Brie ha lavorato con i suoi giovani attori: Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhiero, Pietro Traldi ed Adalgisa Vavassori per dare forma scenica al feuilleton dei Karamazov, concentrandosi sulla trama piuttosto che sul pensiero di Dostoevskij, sui ruoli piuttosto che sulle funzioni, sui personaggi piuttosto che sulle idee. L'impressione è che l'instintività di Dimitrij, la ragione e il dubbio portati alla conseguenza nichilista del 'tutto è permesso' di Ivan, la bontà e purezza religiosa di Aleksej, il risentimento e la sete di vendetta di Smerdjakov, oltre naturalmente alla grettezza di Fëdor, il padre di quei figli umiliati e offesi rimangano in superficie, si raccontino in gesti, in un'invenzione scenica che gioca con tenerezze di maniera, che cerca una semplicità e povertà di mezzi che non corrispondono all'intuizione poetica, ma sono esercizio di stile. Ciò che accade in scena è troppo alla César Brie. Non ce ne voglia il regista e attore, ma è come se avesse messo il pilota automatico e restituito il romanzo di Dostoevskij alla sua maniera, senza però farlo proprio per poi ri-offrirlo vero e sentito all'altro, ovvero lo spettatore. Ciò che accade in scena, lo scandirsi dei quadri, il lavoro sul corpo, l'atonalità del recitato divengono subito prevedibili, sono cliché a cui piegare un mondo, in questo caso il mondo dei Karamazov. Ogni particolare, ogni azione è troppo narrata, troppo spiegata, il senso oscuro, l'abisso e la tensione alla luce, la intima disperazione e l'infelicità grottesca e ridicola di chi troppo soffre, per cui al grande dolore fanno seguito prima le lacrime e poi il riso non arrivano. Anche i bambini — che César Brie definisce protagonisti occulti del romanzo — sono segni estetici, non inquietano, tantomeno commuovono. Il risultato è il racconto, una storia di amori, desideri, rancori, soldi e vendetta, ma nulla di più. Ciò che rimane è la trama, la vicenda presentata lì, raccontata come in una sorta di guida alla lettura de I fratelli Karamazov. Chiarita la trama verrebbe da dire: è tempo di affrontare il pensiero, di metterlo alla prova della scena, di agirlo sì come carne e sudore del teatro... ma ciò deve ancora accadere e forse prima o poi accadrà.
Nicola Arrigoni