di Anton Pavlovič Čechov
versione italiana Danilo Macrì
Regia di Filippo Dini
Interpreti Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe.
Scene Laura Benzi Musica Arturo Annecchino
Luci Pasquale Mari
Prod.Teatro Stabile di Genova Fondazione, Teatro Due
Roma, Teatro Eliseo dal 3 al 15 novembre
Parma, Teatro Due 20, 21, 22 novembre, Imola, Teatro Stignani dal 25 al 29 novembre, Trieste, Teatro Rossetti dal 16 al 20 dicembre 2015
Teatro Manzoni di Pistoia, dal 2 al 4 dicembre 2016
PISTOIA - Anton Pavlovič Čechov è forse il più acuto e il più disilluso degli autori russi, andando ben oltre il fatalismo di Tolstoj e Dostoevskij, e superando, nelle sue considerazioni, il condizionamento di matrice cristiana che gravava sulla cultura russa dell'epoca. Di questa cultura intuì e descrisse la profonda crisi che la stava divorando, a negli anni Ottanta dell'Ottocento quando la dissidenza contro lo zarismo stava consolidando le sue radici, e correnti di pensiero come socialismo, nichilismo e anarchismo minavano alla base l'atavico sistema di valori religiosi e civili. Attraverso il personaggio di Nikolaj Ivanov, Čechov tratteggia un personaggio intellettualmente complesso, ma incapace di "andare oltre": un dandy fallito, ormai un "refrattario" alla vita e a sé stesso, incapace di utilizzare le proprie capacità intellettuali e morali, che più tardi avrà in Joseph Roth un tragico, reale esempio. Nelle vesti di protagonista, Filippo Dini impersona un Ivanov rattristato e indolente, sincero con sé stesso fino all'estremo, dai repentini sbalzi d'umore, ormai ridotto a un filosofico sbadigliare, non più innamorato della moglie Anna (ammalata di tubercolosi), e incapace di occuparsi di qualcosa, persino delle sue proprietà che sta mandando in rovina per incuria. Un'interpretazione convincente, quella di Dini, che nella gestualità e nel tono della voce immette tutta l'apatia di questo personaggio tragico e commovente insieme. Ivanov simboleggia una società che ha ormai dato tutto, di essa rimane soltanto un'essenza, che però comincia a inacidire. Lo dimostrano i personaggi che a lui fanno corona: dalla moglie romantica e morente, al vecchio zio Conte Šabel'skij, vedovo ma infantilmente curioso della vita, e disposto a tentare l'avventura di un matrimonio con la giovane e ricca Marfa Babakina, mentre la famiglia Lebedev è l'esempio di un'alta borghesia senza più valori di riferimento, attaccata al denaro, alle apparenze e alle convenienze.
Il dramma cecoviano si divide in due atti, il primo di conoscenza e approfondimento dei personaggi e del loro milieu, e il secondo di catarsi finale. Il tono passa con disinvoltura dalla commedia tragica alla commedia grottesca, dall'attimo romantico al cinismo più duro; toni funzionali a raccontare la varietà del "gran teatro del mondo" così come lo ha giudicato Čechov. L'ormai incolmabile distanza fra Ivanov e la moglie Anna, è la chiave che meglio fa capire il distacco dal mondo dell'uomo, e il suo rammarico per le sofferenze che è conscio di provocare negli altri. Sarà Bertelà, nelle vesti della moglie, dà vita a un personaggio commovente, romantico e garbatamente civettuolo, la cui forzata allegria non basterà a salvarla dalla malattia e dalla solitudine: la famiglia ebrea l'ha infatti ripudiata dopo il suo matrimonio cristiano con Ivanov.
Intorno a loro, la società, quel salotto Lebedev dove in un certo senso si decide il destino di Ivanov; è qui che si reca quasi ogni sera, per vincere (inutilmente) la noia che respira in casa sua; è qui che, alla festa di compleanno della giovane Saša, figlia dei padroni di casa, scopre l'amore di lei per lui, e sperando di trovarvi una seconda giovinezza, vi cede. Interpretando Saša, Valeria Angelozzi convince per la sua aria di jeune fille russe, per il suo idealismo romantico (così si spiega l'inclinazione per la delicatezza di Ivanov) combinato con un certo realismo. Suo contraltare, Marfa Barbakina, interpretata da Ilaria Falini: bella, elegante, a tratti sopra le righe, in cerca di qualcuno da dominare per essere lei stessa dominata, una femminilità inquieta e insoddisfatta. Incolori gli uomini, pietosi burattini manovrati dalle donne, ad eccezione del dottor L'vov (un intenso Ivan Zerbinati) e dell'ambiguo faccendiere Michail Borkin (un perfido ed elegante Fulvio Pepe). È proprio il dottore che ha in cura Anna a disprezza e accusare apertamente Ivanov, ma la sua è una coscienza critica ormai spuntata, che non ha la forza di imporsi. E Ivanov andrà incontro al proprio destino, così come la società russa.
Il dramma di Ivanov e del suo mondo è tutto racchiuso nella scena del compleanno, lunga e articolata, che fornisce un saggio sulla borghesia russa dell'epoca. I toni rossastri della scenografia, le luci basse che sfumano i volti, avvicinano la scena a un dipinto di Toulouse Lautrec, sottile cantore dell'abiezione parigina fin de siècle. Qui Saša s'innamora di Ivanov, qui gli invitati cercano di uccidere la noia abbandonandosi a una forzata allegria che scopre ancora di più la loro angoscia e il loro vuoto, qui si parla di cambiali e di soldi, e il vecchio Conte Šabel'skij si butta per gioco tra le braccia di Marfa, su istigazione di Borkin. Qui Anna sorprende il marito assieme a Saša.
Il secondo atto cambia radicalmente atmosfera, con la poetica morte di Anna fra le braccia del marito, al suono di una nenia balcanica. Si arriva quindi alla catarsi finale, al momento del matrimonio di Ivanov con Saša, ma nell'animo dell'uomo irrompe violenta la consapevolezza della propria inadeguatezza, della sua ormai incolmabile distanza dagli altri, della sua incapacità di amare. Le ragioni? Un eccessivo idealismo, una sincerità viscerale, un bisogno di grazia che l'umanità sembra aver lasciato da parte. L'unica soluzione, è un colpo di pistola, sparato davanti alla ragazza e ai suoi familiari, un colpo che lascia tutti esterrefatti, ma senza che se ne comprenda la portata. Gli attori si muovono sul palco con lentezza, soffocati da un'ossessiva nota di bordone di un organo campionato, mentre le luci si abbassano e il sipario si chiude. Un suicidio dovuto a un disagio esistenziale che ha però una spiegazione filosofica: il cuore della questione viene toccato con un rapido, ma importantissimo accenno, ovvero quando Ivanov chiede, a tutti e a nessuno, come conciliare il pragmatismo baconiano all'idealismo hegeliano. In estrema sintesi, il primo esclude qualsiasi forma di sapere (e di verità) disgiunta dall'utilità (in forma pura, per tutta l'umanità, o in forma più ristretta, legata all'interesse personale). L'idealismo hegeliano, invece, risolve le contraddizioni della realtà affidandosi alla Ragione (escludendo la ricerca di Dio e dell'infinito), e rompe l'opposizione essere/non essere attraverso il concetto di "divenire". His fretus, la crisi esaminata da Čechov sta nella mancata sintesi dei due sistemi di pensiero. A un pragmatismo esasperato (dove i matrimoni di convenienza ne sono il simbolo più eclatante), la società russa affianca la mancata evoluzione del non essere verso l'essere. Ivanov infatti "non è", non riesce e mai riuscirà ad essere, e con lui tutta una generazione che ha ormai un carattere teatrale, forse non nel senso più alto, ma sicuramente nel senso della commedia tragica. Brilla di un'eleganza non propria, si strugge di pietà e l'istante successivo si abbrutisce in collere malvagie e grottesche, è incline al fatalismo e alle nostalgie, spesso querula nei suoi ceti più umili e malinconica in quelli più elevati.
La regia asseconda la febbrilità concettuale del testo, infondendo al dramma un ritmo sostenuto, fra luci e ombre, serietà e amara ironia. Il canto delle cicale, che si sente in sottofondo durante buona parte del primo atto e che suggerisce l'afosa immobilità di una giornata estiva, è la metafora dell'immobilità e della pigrizia dello stesso Ivanov, simbolo di una società ormai indebolita e in procinto di essere sopraffatta da una nuova epoca. La Rivoluzione d'Ottobre del 1917 porterà infatti in Russia un'aria radicalmente nuova.
Meritati applausi per uno splendido spettacolo che è l'attualissimo paradigma di un'Europa in piena deriva.
Niccolò Lucarelli
La lunga notte di questa eclissi dell'occidente, vissuta sulla pelle (nell'anima) di persone, collettività, specifici gruppi sociali -privi di rete di protezione, di welfare, di clientelari invasature- è nitidamente riprodotta dalle prime espressioni teatrali rintracciabili qui a Roma, o in successive soste nazionali. All'Eliseo, ad esempio, si rappresenta (per la regia dell'ottimo Filippo Dini) la prima, la più 'sintomatica' delle opere di Anton Cechov (scritta nel 1887 a 27 anni, morì a 44), titolata al nome del suo sfinito, confusionario anti-eroe- Ivanov – in cui già si prefigurano tutte le esauste maschere della 'pena', della 'fatuo\assurdità' del vivere (senza vivere), di cui la letteratura, il teatro, la cultura del novecento sapranno fare essenza e percolato attraverso gli itinerari umani e creativi di Musil, Svevo, Pirandello, Joyce, Benco.
Bizzarro. ma pertinente alla poetica dell'autore, è il progetto di regia, mirante a "raccontare la noia", nelle sue smidollate, numerose sfaccettature, sino a che essa non precipiti in tragedia. E intrecciando, a tal fine, uno spettacolo di smagliante, composita espressività, ove ad un estroso, ingegnoso pauperismo scenografico (con cambiamenti a vista), su di un tappeto musicale evocante, in sordina, motivetti da bella epoque scorre l'ultimo anno di vita dell'Ivanov, uomo e perdigiorno, ambizioso e inconcludente, velleitario e infingardo. Costretto a fare i conti con la propria inadeguatezza verso il mondo" e l'intervenuta disperazione, sotto forma di abulia, di accidia, verso ogni idea di futuro, di dignitosa 'sopravvivenza' al vuoto esistenziale procuratogli da una sfilza di errori, miserie, disavventure sentimentali (le, quali, e per inciso, semineranno vittime innocenti e 'morti senza tomba' nell'accezione cara a Sarte).
Chi è il demone contro cui Ivanov lotta invano, sino a 'debellare' l'esistenza di due donne che lo amano, oltre a quel po' che resta del suo avito patrimonio terriero? Come dicevamo, il è tarlo della 'noia', dell'incapacità di gestire il quotidiano, senza per questo atteggiarsi a vittima, dandy, genio incompreso; semmai dispiegando un'emotività ed un'energia dirompenti come fuochi fatui. A Cechov, ovviamente, che non giudica mai nulla e nessuno, non interessa la scaturigine (la causa) di simile inerzia o blocco esistenziale, cosparso di buoni propositi e minimalismi contraddittori, auto-lesivi. Uomo superfluo ben più esiziale del suo progenitore "Oblomov" (romanzo del 1859), Ivanov 'rappresenta' se stesso, e la sua 'mancanza di qualità', senza dover spiegare a nessuno il donde e il dove del suo quotidiano flagello.
Che, va da sé, in questo smagliante spettacolo in cui naturalismo e pochade, tragedia e vaudeville convivono armoniosamente, guadagna valenze allegoriche, metaforiche, psicosomatiche (la corpulenza del personaggio) rispetto alla 'perdita di baricentro' cui ci espone (con dolore o cupio dissolvi) ogni 'finale di partita' -e di epoca- incapace (come accadde nella Russia del tardo zarismo) di intravedere elementi di progettualità, di alternative civili e di 'trainamento' umano alle cicliche decadenze che la Storia assegna –in senso circolare, sosteneva Vico- ad ogni scadenza d'epoca.
Da cui ripartire come in un 'viaggio per Citera': boscaglia, lungo-fiume o mareggiata odisseica che affaticheranno missione e andatura di chi sopravvive come nei "cuori di tenebra" di Conrad e Coppola. Esploratori di un 'rinascimento alla fecondità dell'esistere', da cui alcuni di noi saranno purtroppo estromessi. Non per inettitudine, ma per aver troppo osato, prima o in ritardo. E poi il dubbio: cosa mai 'osò' Ivanov 'per ridursi così'? A fine spettacolo ne sapremo meno di prima, ma del benevolo mistero rendiamo grazie a questo inatteso incontro, ilare e patibolare, con il medico\drammaturgo: egli stesso svogliato, discontinuo, impareggiabile nella vita, più della sua inerme creatura di cui conviene custodire memoria. Quanti consanguinei ha oggi Ivanov? Vanno bene, fra i tanti, "L'uomo in bilico" di Bellow, Portnoy di Philip Roth, "L'uomo che non c'era" dei Coen...?
Angelo Pizzuto