di Matei Visniec
traduzione Debora Milone e Beppe Rosso
adattamento Lorenzo De Iacovo e Beppe Rosso
aiuto regia Yuri D’Agostino
con Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca, Angelo Tronca e con venticinque cittadini nel ruolo di testimoni
scene e luci Lucio Diana
riprese video Eleonora Diana
tecnico di compagnia Adriano Antonucci
sound Massimiliano Bressan
costruzione scene Marco Ferrero
Produzione A.M.A. Factory
San Pietro in Vincoli, Torino, 30 novembre 2023
Testo dalle molteplici chiavi di lettura, Lo spettatore condannato a morte di Matei Visniec, scrittore e drammaturgo rumeno trapiantato da anni in Francia, è partitura teatrale la cui definizione deve andare oltre la facile etichetta di parodistica commedia in tema di giustizia: con la traduzione di Debora Milone e Beppe Rosso, sua anche la regia, la piéce di Visniec rivive in scena per la rassegna torinese Fertili Terreni Teatri all’interno dell’ex cimitero di San Pietro in Vincoli, spazi per l’occasione trasformati in aula di tribunale con tanto di scranni per un giudice, avvocati dell’accusa e della difesa, un cancelliere. Un po’ defilata, in apparenza confusa tra il pubblico, ecco la seduta occupata dallo spettatore del titolo, presenza muta ogni sera scelta tra i presenti sulla quale si riversano accuse, delazioni e sospetti, senza che dall’indagato possa provenire alcuna parola: a completare il cerchio la sfilata di immancabili testimoni, dal bigliettaio alla ragazza del bar passando per semplici spettatori, goffe presenze dai contorni a tratti clowneschi anch’essi investiti dalla logorrea con cui la Corte cerca di trovare pretesti per la condanna dell’imputato. In questa cornice, capace di strappare ben più di una risata per ottanta minuti filati, prende forma in realtà un processo ben diverso da quello immaginato in scena: indagando con attenzione tra le righe di una scrittura da subito evidente nella sua matrice di “teatro politico”, è palese come il processo farsa intentato al muto spettatore sia in realtà un feroce j’accuse verso l’omologazione di una società incapace, o forse consapevolmente restìa, a non alzare la voce ed a non ribellarsi, al non dire “io non ci sto” quando sarebbero auspicabili decise prese di posizioni. Cosa, infatti, colpisce di più nell’improvvisata aula di tribunale? Non certo le goffe arringhe che spesso diventano per gli inquietanti avvocati sfide a chi urla di più; non certo le grottesche dichiarazioni dei testimoni; e ancor di meno gli accessi d’ira di un giudice più dedito a sorseggiare vodka che a divincolarsi tra i cavilli dei codici. A deflagare è il silenzio dell’imputato, ostinato mutismo che diventa in breve arma d’offesa, più che strategia di difesa, verso quel potere volutamente parodizzato con immancabile dose di umorismo nero. Ed ancora, in un finale che assume sempre più contorni da metateatro, ecco la non meno provocatoria messa in discussione dell’atto artistico in sé, di un’idea di teatro la cui attuazione sembra inevitabilmente dover pagare il prezzo alla consapevolezza di una sua dimensione irreale, onirica, in perenne mutamento: non può esistere poesia se non immaginando il processo creativo in continuo divenire, sembra suggerirci il Visniec teorico del “teatro decomposto”, per una creazione artistica che sia flusso magmatico per la cui trasposizione scenica ci si deve affidare alla libertà di ricomposizione, di assemblamento, arrivando ad un unicum finale che sarà tanto atto politico, quanto responsabile esercizio di un pensiero critico. Insieme ai cittadini che hanno partecipato al laboratorio tenutosi nelle settimane precedenti l’allestimento, Lorenzo Bartoli, Francesco Gargiulo, Andrea Triaca ed Angelo Tronca sono i quattro applauditi interpreti ogni sera chiamati a far rivivere una commedia-processo dall’epilogo affatto scontato: se infatti nell’aula si celebra il dibattimento prima ad uno spettatore, e poi all’atto creativo dell’arte stessa, in chiusura di rappresentazione fuori dalla sala imperverserà una rumorosa ribellione, collettiva presa di coscienza e forse elemento indispensabile, sembra suggerire l’autore, per ogni forma di cambiamento. Una postilla per finire: nella replica cui abbiamo assistito, tra l’incuriosito e il divertito, a chi scrive è toccato in sorte il ruolo dello spettatore imputato: semplice casualità, o sottile vendetta di autore, regista ed attori pronti, per una volta, ad immaginare un processo contro “un critico teatrale condannato a morte?”. Ai posteri l’ardua sentenza, ça va sans dire… Roberto Canavesi