drammaturgia e regia Roberto Latini
luci Max Mugnai
musiche e suono Gianluca Misiti
elementi scenici Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
con Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella,
Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani
co
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Compagnia Lombardi-Tiezzi,
Fondazione Matera Basilicata 2019, Associazione Basilicata 1799 / Città delle 100 scale Festival
in collaborazione con Consorzio Teatri Uniti di Basilicata
foto di scena Masiar Pasquali
Piccolo Teatro, Studio Melato, dal 28 novembre al 22 dicembre 2019
Lo spazio è quello semicircolare del Piccolo Teatro Studio, allestito con un gelido e minimo intervento scenografico che si esprime in un alto fondale bianco tagliato a strisce per la lunghezza, da cui entrano ed escono gli attori; uno scivolo da giochi (passerella inclinata per una giostra quasi felliniana, a un certo punto); due moduli di vecchie sedie di legno da cinema semoventi. Poi, nella seconda parte, una passatoia di moquette rossa che viene avanti a tagliare in due il pavimento, virando in rosso-ferita la precedente geometria cromatica, e un scintillante arco scenico di lucine che cala dall’alto e richiama allo stesso tempo il teatro di varietà e la cassa armonica di una festa di paese.
La vita è qualcosa che attende solo il momento di darsi in pasto al teatro? E il teatro, per converso, è forse l’unico luogo dove la vita può essere vissuta pienamente? Pare di sì, a sentire il racconto che ciascun attore fa del proprio apprendistato, in una sequenza che occupa quasi tutta la prima parte del lavoro. Ricordando il meccanismo di auto-fiction messo in opera in altri spettacoli recenti – tuttavia qui non incentrato su un livello bio-politico, ma appunto sulla dimensione vocazionale dell’arte – questo raccontarsi in prima persona, condotto, va detto, con una certa dose di humour e autoironia, pian piano introduce il tema di una sorta di sovra-realtà, di cui il teatro è canale, in cui sentiamo che in fondo, qui, i morti non sono morti, ma presenze vive e immortali.
Marco Vergani elenca per esempio le proprie esperienze, sempre interrotte sul più bello dalla fatidica morte del regista di turno, in una successione di lutti della quale egli scopre poi la causa occulta, dall’analista, nel fatto che da bambino viveva accanto a un cimitero? Ed ecco un primo rintocco, e vien da pensare: in fondo teatro e cimitero sono luoghi affini, in teatro sperimentiamo la morte e la resurrezione che il cimitero sigilla nell’invisibile. Elena Bucci poi, nella sua rievocazione dell’incontro con Leo De Berardinis (che è il fantasma principale di questa e-vocazione, se non con-vocazione affettuosa) racconta di quando gli chiese di poter dormire in teatro, durante le prove dello spettacolo “Il ritorno di Scaramouche”, perché “là ci sono gli spiriti buoni, le presenze”.
E Leo è uno dei grandi artisti scomparsi evocati nel racconto di quasi tutti, oltre a Perla Peragallo, sua sodale prima della fase bolognese. Non è un caso che Marco Manchisi, Marco Sgrosso, Elena Bucci e lo stesso Roberto Latini vengano da quell’esperienza. Quello che insomma emerge con forza in tutti, ci sembra, è questo elemento di una vita “data in pasto” al teatro. Non perché il teatro divori, non soltanto, almeno, ma perché il teatro risuscita. Detto altrimenti, mette in moto una dialettica stringente di morte e resurrezione.
Ma una vita “data in pasto” al teatro è anche, letteralmente, in fondo, la pena che rischia di scontare Pinocchio quando, per aver interrotto lo spettacolo delle marionette, viene minacciato dal capocomico di finire capofitto nel fuoco che cuocerà, a Mangiafoco, la cena.
Siamo dunque davanti a uno spettacolo denso di segni ambivalenti che rimandano ad altri segni, in un viluppo dove una parte di storia del teatro italiano degli ultimi 30 anni, autobiografia artistica, pre-testo letterario (cioè metafora attraverso cui leggere alcuni snodi del nesso teatro-vita-società), poesia scenica, si intrecciano per linee non prevedibili, in una fuga apparentemente emorragica, in realtà saldamente orchestrata e pilotata dal demiurgo Latini.
Nella forma di un varietà finto scassato, o di un concerto d’attore, che mischia alto e basso, macchietta e riflessione filosofica, simbologia alta e citazioni pop-popolari (Topolino-Totò) – che era poi, mutatis mutandis, anche la cifra di Leo, a ben vedere – lo spettacolo si sviluppa con un andamento digressivo continuo, che alla fine va a orbitare, per emersioni progressive, intorno a un punto limite, o nucleo fiammeggiante, di significato: il senso della vita a teatro o del teatro nella vita (e nella società) misurato, o meglio smisurato, sulla pelle degli stessi artisti che vediamo all’opera.
Infine, sul finale, tutto converge nella potente scena del ghiaccio. Niente di che, in apparenza: sei blocchi di diversa grandezza, introdotti dopo che anche il regista-attore ha consegnato al pubblico il suo pezzo di autobiografia artistica, nella quale ancora una volta il teatro risulta luogo dove coesistono rischio e pudore, pericolo e levità, amarezza e gioia. L’evocazione di Perla Peragallo è la conferma di una dimensione iniziatica dove “non c’è nulla da guardare”, perché il teatro è processo di conoscenza in prima persona. Ed ecco il primo blocco di ghiaccio, retto da Latini, nel momento in cui egli lo cinge con il lungo, iconico naso a cono, rosso, affratellandolo a Pinocchio. Qui tutte le scene precedenti non cominciano forse a precipitare e a disporsi nella mente con lento, ma deciso movimento, intorno al ricordo di un altro grande morto, in realtà vivo e immortale? E non è forse, costui, l’Eduardo della famosa dichiarazione a Taormina del 1984, del teatro che “È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo?”. Insomma, questo vestire di maschera, e coccolare, il blocco di ghiaccio, con amore e attenzione, non pare infine l’oggettivazione di quella frase ultima, testamentaria, terribile e serena insieme? Dove teatro e vita si ritrovano saldate nell’immagine ambivalente del ghiaccio (che gela e ustiona insieme?) – mentre anche il fuoco divampa, improvvisamente acceso in un catino, ai piedi degli attori, e sembra meno familiare del ghiaccio, meno “caldo” (forse è la minaccia distruttiva di Mangiafoco?). Siamo al punto apicale, e conclusivo, dello spettacolo, quello in cui tutto il suo tortuoso e magmatico fluire trova una magnifica, salda emersione simbolica, e dove la commozione sale lenta e dolce come un effetto a lungo preparato, e che ora dilaga.
Franco Acquaviva