di Pier Maria Rosso di San Secondo
regia di Lydia Giordano
con Sara Firrarello, Viola Graziosi, Roberta Lidia De Stefano, Caterina Luciani,
Barbara Giordano, Deniz Ozdogan, Manuela Ventura, Sara Lazzaro, Silvia Valsesia,
Egle Doria, Lisa Galantini, Isabella Macchi, Alice Spisa, Irene Timpanaro, Aurora Peres, Mila Vanzini, Roberta Caronia
fotografia Valentina di Mauro
direttore di scena Antonio Ferro
coordinamento tecnico Gaetano La Mela, Andrea Bruno
tecnico luci Salvo Costa
direttore tecnico e degli allestimenti scenici Carmelo Marchese
produzione Teatro Stabile di Catania
Durante questi mesi si è parlato tanto delle sorti del teatro. L’esperienza della pandemia ha tracciato una linea divisoria tra il mondo “com’era prima” e il mondo “com’è adesso”, ed è stato inevitabile chiedersi cosa sarebbe successo allo spettacolo dal vivo, quali forme si sarebbero dovute inventare per andare avanti, paventando un futuro prossimo di stagioni teatrali in streaming. Per chi avrebbe potuto permetterselo, naturalmente.
La dicotomia “streaming sì/streaming no” si è però configurata da subito non come un dualismo, piuttosto una complementarietà, visto che stiamo assistendo alla coesistenza di spettacoli solamente dal vivo, dal vivo e insieme in streaming, e performance pensate esclusivamente per una fruizione digitale, la cui forma, ancora in via di sperimentazione, deve essere ben studiata e perfezionata.
Durante il lockdown, quando si era nel pieno del dibattito, l’attrice Lydia Giordano ha anticipato i tempi, scegliendo di lavorare a quest’ultima opzione per la sua prima regia teatrale. Non tanto per un’intenzione a prescindere, quanto per il ritrovamento del testo poco noto di Pier Maria Rosso di San Secondo La mia esistenza d’acquario, che le ha richiamato, ispirandola, questo tipo di format.
Una performance interamente digitale e ciò che permane del teatro
Incuriosita da questa novità, decido di farmi spettatrice virtuale della performance, dove 17 attrici, collegate da casa propria e da diverse parti d’Italia attraverso la piattaforma Zoom, metteranno in scena (fino al 3 ottobre) i 17 brevi capitoli del romanzo. Puntuale alle 21, mi connetto anche io col link fornitomi via mail dal Teatro Stabile di Catania, dopo aver acquistato il biglietto. Seduta sul mio divano, attendo che lo spettacolo abbia inizio, mentre il brano Preghiera di Edmondo Romano, dalle note calde e arabeggianti, mi intrattiene nell’attesa; intanto, altri partecipanti/spettatori come me iniziano a entrare nella “room”.
Ciò che permane del teatro (in particolare di quelli più raccolti), e addirittura amplificato, è l’inaspettato senso di intimità che si viene a creare, sicuramente accentuato dal fatto che, oltre a essere in diretta, le attrici sembrano parlare direttamente a me, guardandomi negli occhi, seppure stiano guardando un obiettivo, e io “soltanto” uno schermo. Lì, si avvicendano i disegni coloratissimi della Giordano – che è anche un’illustratrice – come fondali cangianti di un acquario da cui sbucano, in cui si fondono e con cui interagiscono le attrici, vestite spesso in raso, quasi le avessimo colte davvero nel torpore della notte. Pur percependo questa intimità, non vediamo tuttavia gli ambienti delle loro case - se non alcuni oggetti “di scena” quali veli, lampade o gioielli - ma quasi dei tableaux vivants virtuali e animati. Unico difetto (o effetto, pare improbabile, ricercato), il suono delle voci che si fa spesso asincrono, rendendo più artificioso ciò che volutamente lo è, ma di cui a tratti ci si dimentica.
Il senso, la trama e il mezzo di fruizione
Le attrici, che hanno lavorato singolarmente con la regista, dimodoché non si influenzassero l’un l’altra, interpretano tutte un unico personaggio, ognuna col suo stile peculiare. La vicenda è narrata in prima persona da Lauretta, figlia trascurata di Emma, un’attrice perennemente in tournée che sempre le sfugge e mai le appartiene, ma di cui tuttavia si innamora. La donna, colta in adulterio, verrà uccisa per impulso dal nuovo marito Olgiati, cognome che la rende ancor più estranea agli occhi e alle orecchie di Lauretta.
L’uomo inizia a scontare la sua pena in carcere, e quest’ultima, trasferitasi nella villa Olgiati sotto l’influenza della zia Rachele, inizia un percorso a ritroso per afferrare l’identità della madre e il senso stesso della sua esistenza, che la intrappola (da qui il titolo) come un pesce dentro un acquario. A tal proposito, le illustrazioni della regista rappresentano ulteriori barriere tra noi e il personaggio, senza dimenticare che è proprio il mezzo di fruizione e “la trappola dello schermo” a rendere meglio questa idea di clausura, colta dall’intuizione di Lydia Giordano. Particolarmente efficace quella del grembo materno, rappresentato da un cerchio rosa incluso nella sagoma rossa della madre, ed entro cui si rannicchia, sovrapponendosi, l’attrice, una volta afferrato il ricordo attraverso gli odori delle cose a lei appartenute.
La trama, un po’ intricata come il bosco che fa da sfondo a un episodio, si fa più fitta nella sua parte centrale, e ciò che si evince è una sorta di sdoppiamento della figura di Lauretta, dentro cui sembra rivivere (in un continuo scambio) l’alter ego della madre, arrivando, in determinati punti e mediante l’interazione con alcuni personaggi maschili del passato di Emma, in una identificazione. Anche nel finale, Lauretta sembra risolvere il suo dramma agendo in nome della madre, vendicandosi per ciò che le è stato sottratto; apparentemente, poiché niente le era stato in fondo mai dato, se non con distratta freddezza.
Per questo, la sua forma, che inizia e si esaurisce con quella materna, rimane sempre inconsistente come quella di una medusa, immagine con cui si apre e si chiude la performance.
Ciò che rimane del teatro e riflessioni conclusive
A imprimersi nella mente, dopo lo spettacolo, non è tanto la storia nei suoi sviluppi non sempre decifrabili, quanto piuttosto l’alternarsi delle emozioni da un capitolo all’altro, inserite in una dimensione onirica e nel senso di ovattamento simile a quello di un’immersione subacquea. Esse spaziano dal dispiacere all’estasi nel ricordo dei polpastrelli rosei della madre e dell’illusione di essere considerata, passando per il senso di smarrimento e di abbandono, per la paura, il ribrezzo, l’eccitazione e il desiderio di rivalsa. Ogni attrice si inserisce allora nelle trame del disegno, cercando di trasmettere questo vasto repertorio emozionale attraverso lo schermo che, soprattutto nell’episodio conclusivo dove la tensione raggiunge il suo punto più alto, sembra “bucarsi” grazie all’indubbio talento.
E rimane infine un’altra idea: che lo streaming, in fondo, non potrà mai diventare un sostituto dello spettacolo dal vivo, forse nemmeno paragonabile, ma potrà essere capace, soprattutto in queste forme esclusive, di offrire un altro genere di opera d’arte, a chi può, e anche a chi – pandemia a parte – non ha la possibilità di godere dell’andare fisicamente a teatro.
Valeria Minciullo