di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato
poemetto scenico di Marco Martinelli
regia del suono Marco Olivieri
tecnico luci Luca Pagliano
direzione tecnica Enrico Isola, Fagio
realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe Alessandro Pippo Bonoli, Fabio Ceroni, Fagio, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Dennis Masotti, Luca Pagliano
capi vintage A.N.G.E.L.O.
produzione e promozione Silvia Pagliano
organizzazione Francesca Venturi
relazioni con la stampa e consulenza Rosalba Ruggeri
disegno e veste grafica Stefano Ricci
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro in collaborazione con Primavera dei Teatri
foto di Enrico Fedrigoli
Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano, il 23 gennaio 2022
Il cerchio si presenta fin da subito come cifra scenografica, e il nero assoluto irredimibile come correlativo della tenebra. Dietro le spalle di Ermanna Montanari un elemento a forma di disco, che ne aureola la figura, e che ruoterà su se stesso nel corso dell’azione a mostrare un lato riflettente. Proiettato su uno schermo di fondo un oblò di luce, nel quale vediamo materializzarsi un foglio nero, primo di una serie, sul quale prenderanno forma, disegnati in gessetto bianco, per mano dell’illustratore Stefano Ricci, chino sul pavimento nel centro della scena, figure di sogno, immerse in una nebbia sfumata, dotate di una densa corporeità trasluminata, emananti un senso arcano di vaga minaccia, come occhi di ciclone – o occhi di ciclope. Anche Daniele Roccato, al contrabbasso, sulla destra, è avvolto in una noce di luce che lo stacca dagli altri due.
La tenebra della scena è la stessa da cui è circondata l’anziana donna, uno dei due personaggi del poemetto scenico di Marco Martinelli. Di lei sappiamo che è caduta non si sa come dentro a un pozzo, in piena campagna. E’ il figlio che scopre l’incidente. E si affaccia su quella soglia rivolgendosi alla madre, in un rimprovero senza dramma, venato di ironia (“Ma ti sembra/ alla tua età/ ti sembra/ che ti devi affacciare al pozzo/ e sporgerti/ e alla fine caderci dentro?”). Il pozzo è fondo, non sarà facile tirarla fuori e l’uomo comincia a elencare tutte le soluzioni possibili. Tuttavia, man mano che egli procede nella sua analisi della situazione, sembra sempre più chiaro che il problema non è di natura pratica. Infatti nel discorso del figlio cominciano ad emergere tracce di una specie di irresolutezza, strana, che filtra dalle stesse parole che affermano la più ferma volontà di salvare la donna. Più l’uomo dice che è necessario chiamare gente, che non può tirarla fuori dal pozzo da solo, che ci vuole il trattore, quello potente, il cavo d’acciaio tal dei tali (beffarda la descrizione dettagliata delle tipologie di cavo esistenti, con le loro brave caratteristiche), più, con la cumulazione dei modi di salvataggio, in questo concitato catalogo, sembra sfumare di pari passo la volontà di trarre in salvo la madre.
Del resto quello è un pozzo profondissimo: “(…) così sfondo/ (…) che a un certo punto dall’altra parte/ si vedono le montagne!”. Così avvertiamo improvvisamente anche un’altra nota, che rimanda a una dimensione ctonia, nella quale si sentono gli echi della lunga frequentazione di Dante che ha impegnato le Albe negli ultimi anni.
Per tutto lo spettacolo – il testo è costruito come un dittico, con due monologhi separati, e i personaggi, privi di contatto diretto, sono divisi anche da un’incomunicabilità che si svela via via lungo il doppio registro di due modi opposti di vedere la vita e il mondo – Ricci seguirà con le sue forme ectoplasmatiche il flusso delle immagini che la voce di Montanari invia: voce che si incaverna, pozzo vocale nel quale baluginano frammenti di dialetto; soffiati, gutturali, sibilati; in un impasto che sbava anche l’italiano e lo rigurgita sotto forma di plastica evocazione tellurica. Il segno che Ricci imprime sulla carta ha un peso, si percepisce la resistenza del gesso, la pressione della mano che vuole dare quella e non altra forma e consistenza, una sorta di travaglio, che si rivela anche nel fatto che parte del gesto consiste nel cancellare; così una traccia troppo marcata si traduce in uno sfumato, che d’improvviso dona profondità inimmaginabili al nero sottostante. Può il nero emergere con maggior forza dal nero? Può, con il lavoro del bianco. In fondo nel figlio avviene un processo analogo. Come nel disegno il bianco sfumato fa emergere un nero più fondo, così, nel figlio, la volontà di salvare la madre sfuma nell’atto mancato e poi nell’abbandono.
Non solo, ma nell’atteggiamento dell’uomo sembra di scorgere qualcosa di oscuramente familiare. E’ esperienza abbastanza comune imbattersi in qualcuno che scambia il dire con il fare, e se dice di voler fare una cosa poi è altamente probabile che non la faccia. Dirla, e spendere nel dirla un’energia pari a quella che ci vorrebbe per farla, è come se esaurisse il compito. E viene allora in mente quel che resta della vita politica del nostro Paese quando, così spesso, gli annunci sostituiscono le azioni: chi parla dall’orlo del pozzo e chi aspetta nel fondo. E così per generazioni. Allora non sorprende che il figlio a un certo punto se ne vada. Va a cercare aiuto, certo; c’è anche il temporale che incombe, certo; ma si sente che ha esaurito tutta la sua energia psichica nell’annunciare il salvataggio.
Il finale di questa prima parte è sostenuto dalla marea montante del secondo movimento dell’Allegretto della Settima Sinfonia di Beethoven, con il contrabbasso che delicatamente insinua un commento jazz. Ermanna esce di scena e riappare come Madre con una lunga parrucca bianca; la pervade come una morbida rassegnazione. Si rivolge al figlio senza accenti di angoscia o paura, come se sapesse che là sotto prima o poi doveva finirci. Rievoca il momento della caduta, e non sa esattamente come sia successo. Ma sbalza un ritratto del figlio: corre sempre, non si accorge delle cose che ha intorno, per distrazione può far male, manca di attenzione. Ecco il punto. Lei non lo accusa di averla spinta giù, però con quella distrazione, con quella fretta che ha addosso, nulla di più facile che nel passare accanto al pozzo, dove la donna ha da sempre l’abitudine di affacciarsi, l’abbia urtata, facendola precipitare. E’ anche un calpesta-orto questo figlio, e tagliatore di alberi. La madre comincia allora a dire che dovrebbe venire lui, di persona, a tirarla fuori, senza “la tecnologia adatta”. Dovrebbe scendere lui, aggrappandosi alle radici, ai paletti, ai chiodi lungo i muri, ecc. Così, un’esortazione dopo l’altra, ecco che il rassegnato, quasi dolce rimprovero della donna comincia a incorporare altri elementi, a far risuonare altri echi. Il Figlio, nel calarsi, dovrà affrontare tutte le conseguenze della sua disattenzione (e pare proprio di sentire anche l’eco, in absentia, dell’ “attenzione” di cui parla Simone Weil), dovrà affrontare “le grida dei boschi/ di tutte le foreste che hai segato / di tutti i fiumi che hai avvelenato/ oh sì/ dovrai ascoltarli tutti quei lamenti/ se no qua giù/ in fondo/ non ci arrivi!”. L’atto richiesto dalla Madre si configura così come una discesa in se stessi (ancora Dante), per fare i conti con le proprie tenebre. Ma allo stesso tempo come non sentire nelle parole della donna un’altra eco, che sembra rimandare alla figura di Persefone? Una Persefone “rovesciata”, per così dire, che chiede all’Uomo di scendere nell’Ade, lei ormai impossibilitata a uscirne per causa sua, perché ristabilisca l’equilibrio profondo col mondo, con la natura, che ha spezzato? E’ l’Uomo che ha rotto il patto; e ora è lui che deve discendere negli abissi per riconsacrarlo. E per compiere quest’atto deve farsi “sottile sottile”. E’ un’indicazione che attiene solo alla dimensione fisica? O si riferisce anche al “corpo sottile” di cui parlano molte vie spirituali? Insomma, è una richiesta radicale di cambiamento, quella che arriva dalla Madre. Ma il Figlio non risponde alla chiamata. Non sente. “T’am sent? T’am sent?”, è l’ultimo, vano, richiamo.
Franco Acquaviva