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MEIN KAMPF  – di e con Stefano Massini

"Mein Kampf", di e con Stefano Massini. Foto Filippo Manzini "Mein Kampf", di e con Stefano Massini. Foto Filippo Manzini

di e con Stefano Massini da Adolf Hitler
scene di Paola Di Benedetto
luci di Manuel Frenda
costumi di Micol Jolanda Medda, ambienti sonori di Andrea Baggio
produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano, in collaborazione con Fondazione Teatro delle Toscana
al Teatro Due, Parma, 29 ottobre 2024

www.Sipario.it, 30 ottobre 2024

È il potere delle parole che mette in scena Mein Kampf di Stefano Massini. Quella pedana inclinata di un bianco abbagliante su cui si muove il corpo di nero vestito di Massini è una pagina bianca. L’attore/narratore è la macchia d’inchiostro, la parola stampata che riempie quel foglio e che è destinata a cambiare la storia. Dal libro Mein Kampf scritto in una cella di Landsberg e pubblicato esattamente un secolo fa parte tutto, parte la narrazione di Massini. C’è, a fare da prologo, l’incontro con Emil Erich Kästner, autore di libri per ragazzi costretto dal regime ad assistere al rogo dei volumi sgraditi al nazonalsocialismo:. «I nazisti, caro signore, erano un libro./ - dice Emil Erich Kästner - Niente sarebbe stato com’è stato/ milioni di morti sarebbero vivi/ e milioni di libri non sarebbero cenere/ se un ragazzo di nome Adol/ chiuso in una cella a Landsberg/ non avesse scritto quel libro./ Crede lei che le parole/ siano solo inchiostro?/ Nossignore, sono fatti./ Le parole sono sempre fatti. /E non v’è cosa, fra gli esseri umani/ che non prenda forma lí/ insospettabilmente/ lí/ dalle parole». Kästner fornisce la chiave di lettura di quello che accade dopo: della voce, delle parole di Hitler, uomo atterrito dall’insignificanza. 

È rabbioso il giovane Hitler che scrive Mein Kampf, è un uomo ossessionato dal passare un’esistenza senza lasciare traccia, dal dover fare ed essere un anonimo impiegato. Stefano Massini ne incarna il racconto autobiografico, usando le parole di Hitler del Mein Kampf come quelle dei suoi discorsi pubblici e privati, plasmandole nella sua scrittura drammaturgica che procede per ritmi, per riprese di termini e digressioni, un montare di parole e di rabbia che trova nel corpo dell’attore una sorta di ferocia trattenuta che impaurisce e fa ammutolire la platea. 

Da dove si parte per cambiare la storia? È questo un interrogativo ricorrente. La risposta sta nel linguaggio, nella capacità di parlare alla pancia e al cuore, prima che all’intelletto, nel cavalcare le paure, dall’approfittarsi del senso di impotenza di un popolo, di una società nei confronti di un nemico che subdolamente s’intrufola nel corpo sociale. Allora gli ebrei, oggi i migranti, gli stranieri. Non c’è nessuna tentazione attualizzante in Mein Kampf di Stefano Massini, ciò che va in scena è l’atterrante sensazione che quanto dice abbia ancora una forza seduttiva che spaventa. Non più tardi di qualche anno fa Elio Germano con La mia battaglia cercò di riflettere sulla stessa cosa con un gioco di teatro ‘partecipato’. Massini non dà giudizi, non pronuncia sentenze, ma mostra e di-mostra che cosa può fare la parola, il suo è un monito a guardare nell’abisso e a non averne paura. Ciò che ci chiede è di confrontarci con quelle parole che seducono ed esaltano perché semplificano la complessità della realtà, perché sembrano promettere soluzioni facili a problemi complessi. Questo allora e questo ancora oggi? Massini non ci fornisce la comoda risposta, ma ci pone di fronte a quella pagina bianca che può essere scritta da noi o da quell’uomo che, terrorizzato dall’anonimato, ossessivamente puntava a vedere stampato il proprio nome e cognome su giornali e manifesti. Alla fine c’è il monito a ricordare, ma è una concessione che Massini ci e si fa, perché fino a poco prima il flusso di parole, le apparenti verità ovvie e seduttive rischiavano di essere nostre e non solo di quell’uomo di nero vestito, segno grafico su una pagina bianca da scrivere non da solo, ma con la complicità di chi fece proprio quel linguaggio. L’applauso finale è interminabile, dopo che per un’ora e mezza la platea ha trattenuto il respiro, incantata, rapita, spaventata da quel rabbioso giocoliere delle parole.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Giovedì, 31 Ottobre 2024 09:45

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