regia di Massimo Castri
scene e costumi di Maurizio Balò
con Massimo Popolizio, Graziano Piazza, Sergio Leone, Federica Castellini, Laura Pasetti, Ilaria Genatiempo, Tommaso Cardarelli, Andrea Gambuzza, Davide Lorenzo Palla, Miro Landoni
produzione del Teatro di Roma
al Teatro Giorgio Strehler, Milano, il 17 novembre 2010
Confrontarsi con Massimo Castri e i suoi spettacoli fa bene, porta lo spettatore a misurarsi con la tradizione e la sua tenuta semantica. Con Il Misantropo di Molière – il primo Molière di Castri – il regista prosegue il suo discorso politico sull'attualità e il buio dei nostri anni, riletti attraverso autori che apparentemente nulla hanno a che fare con l'oggi. Accadde la passata stagione con il vaudeville, La presidentessa, un'allegoria farsesca del potere, accade oggi con Il Misantropo. All'aprirsi del sipario la scenografia di Maurizio Balò ci parla ancora prima che gli attori proferiscano verbo. Lo spazio è quello di un salotto da cui si accede per due piccole porte da cui entrano i personaggi, costretti a chinarsi per passare. Le pareti di quel boudoir sono tappezzate di specchiere in stile rococò. In quegli specchi i personaggi si riflettono, il loro ego si moltiplica in quella stanza il cui accesso necessita del gesto di chinarsi, un atteggiamento meccanico ma non privo di valore simbolico: un'umiltà costretta e costrittiva che mal s'addice ai personaggi della pièce. L'intero allestimento è caratterizzato dall'abbinata del bianco e nero con tocco di colore nelle parrucche secentesche degli interpreti maschili. In questa situazione scenica di perdita di prospettiva, di disperato egoismo e solitudine sembra possibile leggere questo Misantropo che non ha nulla di comico, ma è attraversato da una costante tensione drammatica. Alceste, il misantropo del titolo, è un giovane che non ha in dispregio il mondo in quanto consorzio delle relazioni umane, ma ha piuttosto in gran dispetto la mancanza di etica, il perenne scendere a compromessi che mischia le carte, rende tutto possibile e ammissibile, mercifica sentimenti e relazioni. Ed è questo il taglio interpretativo e registico su cui Massimo Castri pone l'accento, utilizzando con grande incisività la traduzione attualissima di Cesare Garboli. A Massimo Popolizio chiede di sottolineare quelle battute che – astraendosi dal contesto – possano far emergere quella misantropia che non è odio dell'uomo ma è troppo amore per il genere umano per poter sopportare la mancanza di etica, da qui la sdegnosa intransigenza che prima Alceste rivolge verso di sé e poi nei confronti degli altri, salvo ritrovarsi poi in balia di Amore. Massimo Popolizio propone un Alceste corpulento, iroso, a tratti 'bestiale' che rischia di essere mattatore più di bel dire e ben porre la battuta che di autentica sostanza. E' quando Popolizio smette di far vedere quanto è e si sente in parte che l'Alceste voluto da Castri emerge con nitore e senza sbavature. Assolutamente in linea con lo stile di Castri appaiono Graziano Piazza, ovvero Filinto, uomo che sta nel mondo e ci sta bene, senza tradire se stesso. Federica Castellini, Tommaso Cardarelli, Andrea Gambuzza, Davide Lorenzo Palla, Miro Landoni insieme a Laura Pasetti, Sergio Leone e Ilaria Genatiempo – che meritano attenzione – assolvono con compattezza stilistica ai dettami del regista. Il Misantropo di Massimo Castri si fa apprezzare per la coerenza stilistica e per la forza con cui esprime la necessità di una sincerità impietosa, di un rigore assoluto che ci salvi dal baratro che riflette il nostro io in mille specchi, rispecchiamento autogratificante a cui tutto è concesso, a cui tutto si inchina, senza alcuna dignità o morale.
Nicola Arrigoni