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MOBY DICK - regia Antonio Latella

Moby Dick Moby Dick Regia Antonio Latella

da Herman Melville
regia: Antonio Latella
luci: Giorgio Cervisi Ripa, suono: Franco Visioli
con Giorgio Albertazzi, Emiliano Brioschi, Marco Cacciola, Marco Foschi, Timothy Martin. Giuseppe Papa, Fabio Pasquini, Annibale Pavone, Enrico Roccaforte, Rosario Tedesco
Roma, Teatro Argentina, dal 28 novembre al 16 dicembre 2007
Milano, Teatro Streher, dal 27 gennaio al 8 febbraio 2009

Il Giornale, 25 gennaio 2009
Corriere della Sera, 3 febbraio 2009
Il Messaggero, 1 dicembre 2007
Avanti, 17 dicembre 2007
Corriere della Sera, 23 dicembre 2007
www.Sipario.it, 13 aprile 2008
Albertazzi incanta nel «Moby Dick» di Latella allo Strehler

La tentazione di portare in scena i capolavori della narrativa in Europa raggiunge l'apice nell'Ottocento quando i grandi romanzieri francesi, costretti a pubblicare le loro grandi storie sulle pagine dei quotidiani prima di vederle racchiuse in un libro, cominciarono ad adattarne i soggetti per il teatro. Da Dumas a Balzac fino a Zola e a George Sand si assistette così a un vero e proprio florilegio drammatico che ben presto contagiò tedeschi ed anglosassoni e alla lunga finì per coinvolgere il Nuovo Continente. Dove il memorabile romanzo ispirato a Herman Melville dalla mitica caccia del Capitano Achab a quella Balena Bianca che per lui s'identifica col destino e l'inesorabile supremazia della Divinità attrasse e sgomentò i teatranti fin dal 1851, quando «Moby Dick» vide finalmente la luce. Ma né Orson Welles a Broadway né tantomeno a casa nostra Gassman, che solo alla vigilia della morte potè a realizzare il suo sogno, riuscirono a tradurre in termini accettabili un capolavoro che a ragione si può definire il Gran Libro della sfida tra l'uomo e le forze avverse dell'universo. Adesso, invece, Latella regista ed Albertazzi interprete trionfano al Teatro Strehler da martedì (fino all'8 febbraio, largo Greppi, info: 848800304, www.teatrostreheler.org) sull'aspra materia congegnando, sul palco, una sorta di miracoloso meccanismo a orologeria. Che agisce da detector nei confronti della scena ripida e impervia di quella nave fantasma su cui appaiono e scompaiono le bianche ombre dei marinai, non sai più se esseri in carne ed ossa o fascinosi spettri vomitati dal mare a spadroneggiare indisturbati sulla tolda. A mezza via tra il sartiame e l'incombere sottostante della chiglia si colloca poi, come un sogno nel sogno, la cabina del capitano Achab. Divenuta uno studiolo sui generis dove, tra le carte nautiche, i libri mastri e le bussole, la voce di Giorgio Albertazzi, ancor prima che l'attore ci guidi tra i meandri del suo abissale delirio, agisce da mirabile strumento d'incanto. Collocandosi magistralmente all'interno di questa favola tragica, che tanto ha in comune con «Billy Budd», la seconda leggenda marinara di Melville, come un araldo che, manifestandosi e dissolvendosi, introduce e commenta questa strepitosa variante dell'Odissea. Dove, per merito di Latella, l'attore si tramuta in aedo. Finendo per confessarci, alla svolta finale del testo, che la Balena Bianca non è che pura astrazione. Come lo furono l'Eldorado dei conquistadores spagnoli o l'Atlantide magnificata nelle pagine di Pierre Benoit. E' a questo punto che attore e regista decidono di compiere un'inversione di tendenza e Albertazzi ripudia le spoglie di Achab. Diventa Dante e diventa Amleto e, interrogandosi sulla sorte incerta dell'essere divorato dal nulla, conclude il segno grafico dello spettacolo nei vortici della poesia.

Enrico Groppali

Albertazzi uno strepitoso capitan Achab

«Moby Dick» da Melville, nell' elaborazione drammaturgica di Federico Bellini, la regia rigorosa e inventiva di Antonio Latella, l' interpretazione di Giorgio Albertazzi, un capitano Achab di metafisica gravità, è uno spettacolo di non facile lettura, ma di bella fascinazione. Dal fondo del palcoscenico chiuso in una stanza foderata di libri dalla quale uscirà poche volte, Achab è un uomo solo nel suo viaggio verso l' ignoto, non verso la morte, ma verso la comprensione del senso della vita. I suoi compagni di viaggio non sono Ismaele, il bravo Rosario Tedesco, gli ufficiali e i marinari che si affannano sulla scheletrica nave, ma i libri, Dante e Shakespeare, la poesia, la conoscenza: tutto il resto è silenzio. È l' esilio della parola di fronte all' inumano che il regista sembra tradurre col linguaggio dei muti, una soluzione di iperstilizzazione che tuttavia riconduce a un tentativo di comunicazione, di linguaggio, là dove il linguaggio è poca cosa di fronte a un nulla che è conoscenza inconoscibile, bellezza invedibile, sapienza introvabile: la balena bianca «che tutto distrugge e tutto non vince». Bravi tutti gli attori. Straordinario Albertazzi che nel finale recita un «essere o non essere» strepitoso: malinconico, struggente, appassionato, razionale, vero punto di arrivo della speculazione di una coscienza. Strehler, fino al 8 febbraio

Magda Poli

"Moby Dick", il mostro
bianco in ognuno di noi

Giorgio Albertazzi ha accettato di essere e fare nel Moby Dick di Antonio Latella da Herman Melville, con inserti di Dante e Shakespeare, all' Argentina fino al 16 dicembre un Achab del cervello. Si è, come suo solito, consegnato mani e piedi al personaggio, il mitico capitano della baleniera Pequod (prometeico, 15 anni fa, nell'interpretazione di Vittorio Gassman), che viene qui letto, al contrario, in senso totalmente interiore. Ha innervato con la propria arte, ormai così raffinata da giocare senza sosta al gioco del togliere, una figura attorno a cui si avvita una messinscena ridondante, troppo fiorita di messaggi, nel concepimento e nella realizzazione.
Latella, intendiamoci, non è barocco alla vista. Anzi. Ha pensato a un impianto scenografico suggestivo, imponente ma lineare in cui dà gusto il veder collocati gli ufficiali di bordo nelle loro uniformi severe, i ramponieri, i marinai. Ne scaturisce potente l'immagine di una ciurma di maschi (essa sì, formalmente, grintosa e melvilliana) che si basculla da un ponte all'altro, entra ed esce dalla stiva, si arrampica sulle sartìe. Muscoli in movimento, un mistero per ogni corpo. In alto, la cabina di questo Achab più tormentato che ossesso, un uomo solo al comando al quale, per continuare il viaggio, serve il Dubbio, non la determinazione. Il dubbio su cosa ci sia oltre la vita, nel bianco totale e incognito che è anche di Moby Dick, lo stesso "non colore" che Ismaele trova all'epilogo negli occhi del nocchiero. Poteva essere "usato" meglio, un Albertazzi così rarefatto, acuto, disponibile. Uno che al finale, seduto davanti alle onde, chiede a Ismaele energia vitale prima di consegnarsi ai punti interrogativi del Dopo, dell'Oltre. E ricorda, pronunciando la frase estrema del principe di Danimarca, il resto è silenzio, la stupefacente essenzialità che Patrice Chéreau chiese a Gérard Desarthe nel famoso Amleto di fine anni Ottanta.
Con tutto ciò, il disegno drammaturgico di Federico Bellini e quello registico di Latella impongono una cifra forte, personale; a tratti vedi il linguaggio dei segni che i marinai usano quando il mare (dell'anima o della vita) inghiotte i suoni , il risultato è bellissimo. Cosa succederebbe (è la solita, orrida proposta) se ci si rassegnasse a tagliare almeno una trentina dei 150 minuti di spettacolo? Cosa succederebbe se Albertazzi apparisse prima, e prima si accomiatasse, magari dopo il resto è silenzio di desarthiana memoria? Con Emiliano Brioschi, Marco Cacciola, Marco Foschi, Timothy Martin. Giuseppe Papa, Fabio Pasquini, Annibale Pavone, Enrico Roccaforte, Rosario Tedesco.

Rita Sala

Alla scoperta di "Moby Dick"

Uno spettacolo di grande levatura letteraria, oltre che artistica, è andato in scena e proseguirà le sue affollate repliche al Teatro Argentina di Roma. Stiamo parlando di "Moby Dick", affidato alla geniale regia di Antonio Latella e con un fantastico protagonista di nome Giorgio Albertazzi.

Il copione, tratto dalle seicento pagine del romanzo che Hermann Melville pubblicò nel 1851, è opera di Federico Bellini, ancora una volta al fianco di Latella, come già avvenuto per l'elaborazione drammaturgica di "Querelle", tratto da "Querelle de Brest" di Jean Genet, de "I trionfi", tratto da Giovanni Testori, e de "La cena delle ceneri", tratto da Giordano Bruno. Contribuiscono nella più efficace maniera al dipanarsi dell'azione drammaturgia Emiliano Brioschi (Tashrego), Marco Cacciola (Stubb), Marco Foschi (Ismaele), Timothy Martin (Quiqueg), Giuseppe Papa (Deggu), Fabio Pasquini (Padrone della locanda, oltre che Padre Mapple e Capitano Gardiner), Annibale Pavone (Starbuck), Enrico Roccaforte (Eòia-Pip), Rosario Tedesco (Flask). Tutti attori, questi, che da sempre, con lo staff dei collaboratori tecnici, condividono con il regista il percorso artistico. Come sempre il disegno luci è di Giorgio Cervesi Ripa e le musiche di Franco Visioli, mentre l'idea scenografica è dello stesso Latella, che ha affidato la creazione dei costumi a Gianluca Falaschi, alla sua prima collaborazione con il regista. Va qui ricordato che Latella e Albertazzi ebbero ad incontrarsi nel 2004, quando "Bestia da stile" era in scena al Teatro India. Presto presero a parlare di poter lavorare insieme. Cosicché proprio nella storia di "Moby Dick", nella sua potenza tragica e vitale, hanno trovato il loro viaggio comune. La vicenda che qui si narra vede il capitano Achab salpare con la nave baleniera Pequod a caccia di capodogli e balene, ma in particolare di "Moby Dick", la balena bianca che anni prima nel corso di una caccia "gli aveva falciato la gamba, come un mietitore fa di uno stelo d'erba in un campo". Sotto di lui, un equipaggio di ufficiali, marinai e ramponieri. Achab riesce alla fine a individuare la balena ma, nella lotta, perisce e insieme con lui soccombono tutti i suoi uomini. Tutti, tranne uno: Ismaele, che vivrà per raccontare la loro storia. Attraverso gli occhi del narratore è vissuta l'intera temibile impresa. All'inizio egli è effettivamente il personaggio principale, ma appare soprattutto come un affabulatore onnisciente, che con la sua criticità e la sua profondità talvolta scompare dalla scena per narrare e poi inserire le sue riflessioni. Egli si auto-presenta con la nota frase "Chiamatemi Ismaele", il suo nome ha un origine biblica, nella Genesi infatti Ismaele è il figlio di Abramo e della schiava Agar. Va altresì precisato che Moby Dick viene descritta come un essere caratterizzato da profonda malvagità e premeditazione nel ridurre in briciole le lance. La sete di vendetta di Achab però, precisa Melville, non deriva tanto dalla mutilazione fisica subita quanto da un'avversione maturata precedentemente. L'autore dice: "Venne allora che il corpo straziato e l'anima ferita sanguinarono l'uno nell'altra". Dopo la mutilazione e il necessario ritorno a casa si sviluppò la monomania e "Achab e l'angoscia giacquero coricati insieme nella stessa branda". Questa, in sintesi, la trama del romanzo fattosi scena e portato in palcoscenico dal Teatro Stabile dell'Umbria e dal teatro di Roma. Il viaggio, la conoscenza, la morte, il testimone sono alcuni dei temi che danno vita ai personaggi e ne determinano il destino. Tuttavia in "Moby Dick" c'è molto di più: le scene di caccia alla balena sono intervallate dalle riflessioni scientifiche, religiose, filosofiche e artistiche del protagonista Ismaele, alter ego dello scrittore, rendendo il viaggio un'allegoria e al tempo stesso un epopea epica. All'epoca della sua prima pubblicazione, il libro non incontrò un'accoglienza favorevole, ma è oggi unanimemente riconosciuto come uno dei capolavori della narrativa americana. "Moby Dick" prima di giungere a Roma ha riportato un eccezionale successo al Teatro Nazionale dell'Odeon di Parigi. Gli spettatori hanno seguito con intensa partecipazione la messinscena, sottotitolata in francese, e alla fine hanno salutato la compagnia italiana con lunghi applausi ritmati. In platea, tra gli altri, c'erano Claudia Cardinale, Loyrette Henri, direttore del Louvre, Hortense Archambaut, direttrice del festival d'Avignon e molte altre personalità del mondo artistico e culturale.

Renato Ribaud

Dopo Albertazzi, il silenzio

Due o tre anni fa Giorgio Albertazzi vide recitare Marco Foschi e ritenne di scorgere nel giovane attore il suo erede naturale. Ecco, credo che il nucleo del Moby Dick di Antonio Latella sia questo. Lo rivela l' immagine finale in cui l' inabissamento del Pequod, la nave del capitano Achab, e del suo mortale nemico è sublimato (nella drammaturgia di Federico Bellini) in una figura di intimità e dolcezza: Achab e Ismael, l' eroe e il narratore, il predestinato (alla tragedia) e il suo Coro, colui che ne tramanderà le gesta, diventano una persona sola, padre e figlio infine ricongiunti, come in una favola cristiana. Si può supporre che la consolidata vocazione per il tragico di Latella, di fronte al capolavoro di Melville, uno dei pochi romanzi tragici che siano stati scritti, si sia ripiegata in se stessa, come di fronte a una soglia invalicabile. È l' unica spiegazione per quel gesto di Albertazzi, il suo penultimo, quando si libera degli ornamenti del personaggio, in specie della sua gamba d' avorio, e viene avanti, come se stesso, il se stesso di oggi, non più il puer che conosciamo, ma il senex che è, sempre, però, alle prese con la metafisica domanda che lo assilla da quando lo vediamo recitare: essere o non essere? L' irruzione di Shakespeare preceduta da quella di Dante, rispetto a Melville ha una sua congruità. Stilisticamente, Moby Dick è un impasto di linguaggio biblico e di linguaggio elisabettiano. È vi è, come ho appena detto, anche la congruità biografica, che riguarda Albertazzi. È più discutibile, tale apparizione, nel tessuto stilistico dello spettacolo in sé, vi è in essa un tratto inesorabilmente kitsch o, se questa parola non vi piace più, non vi dice più niente, vi è, in quel Dante, e in quello Shakespeare, un che di facile. Il resto è silenzio, viene detto, e ciò che importa è che questo epigramma inscrive in sé l' intera allegoria linguistica dello spettacolo di Latella. Qual è in esso il segno più forte? Indubbiamente, il fatto che l' iperstilizzazione con cui è risolta la complessa vicenda del romanzo sia quella del linguaggio dei sordomuti con cui si parlano i marinai. In tale scelta, ripetuta fino a torcere il collo alle parole (del dialogo o del racconto) vi è un aspetto di plausibilità: essa allude al silenzio del mondo e implica il silenzio che seguirà alla fine della tragica caccia. Ma vi è anche un aspetto di fuga, come fosse una scorciatoia. Ci troviamo di fronte a una soluzione ingegnosa e dunque arbitraria, che è del tutto coerente con l' inclinazione di Latella a confondere il sublime e il bizzarro con la poesia. Altri tratti dello stesso tipo si scorgono nella presenza in scena dei libri: o quelli che Achab, chiuso lassù, nella sua cabina, getta a terra; o quelli, sparsi sulla tolda della nave, su cui saltano i marinai. Perché ciò accade: perché la nave balla? Come del tutto bizzarro, fino a essere privo di un senso perspicuo, è quel gesto di lanciare i piatti. I marinai parlano e si gettano i piatti l' un l' altro, che afferrano al volo in un esercizio di ginnica abilità. Qui l' energia di Latella viene meno, quasi che nel passaggio di Ismael dalla nave mercantile alla baleniera, dalla pace alla guerra, egli ponesse un freno di elusività. O è come se la traiettoria Albertazzi-Foschi, dominante, l' avesse condotto, per difendersene, a chiudere i marinai, a terra supremamente goffi, in quegli abiti puritani: abiti buoni a null' altro che a proteggere il capitano-regista dal capitano-attore.
Moby Dick di Melville/Latella Teatro Verdi di Salerno

Franco Cordelli

Il Moby Dick di Melville è un romanzo che può essere letto in vari modi. Se ne può realizzare uno spettacolo gagliardo, epico, esplosivo come anni fa fece Vittorio Gassman, oppure metterlo in scena con accenti meditabondi, interiorizzati, implosivi come ne ha fatto adesso Antonio Latella al Teatro Argentina, facendo vestire i panni del mitico capitano Achab ad un trasfigurato Giorgio Albertazzi chiuso in uno studiolo pieno zeppo di libri da somigliare al San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina. Ma Latella ha fatto anche di più, complice la drammaturgia di Federico Bellini, segnata, come lui stesso annota, dall’idea di morte evidente ad ogni pagina dell’adattamento teatrale. Ne viene fuori così uno spettacolo intimista, funereo pure, per via dell’idea scenografica dello stesso Latella realizzata con un sipario nero che racchiude come in una grande bara l’intera ciurma dei ramponieri (Annibale Pavone, Emiliano Brioschi, Marco Cacciola, Timothy Martin, Giuseppe Papa, Fabio Pasquini, Enrico Roccaforte, Rosario Tedesco) con in testa il narratore e testimone Ismaele (Marco Foschi), che navigano per oceani infernali alla ricerca di quel mostruoso mammifero che li farà tutti sprofondare in chissà quali abissi misteriosi. Le atmosfere sono snervanti e offrono lo spunto per lunghe riflessioni di carattere esistenziale. E mentre l’equipaggio citerà un passo dell’Inferno dantesco, Albertazzi-Achab s’avventurerà nel monologo dell’Amleto shakespeariano e così la bianchezza dell’ineffabile balena diventa metafora, allegoria e metonimia di realtà trascendenti la comprensione umana. Lo spettacolo iniziato con Ismaele finisce con lui stesso che fa muovere le braccia di Achab diventato ormai solo una marionetta. I costumi, quasi dei grembiuloni neri e bianchi, erano di Gianluca Falaschi mentre le musiche astratte erano di Franco Visioli.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Giovedì, 10 Ottobre 2013 10:41

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