Pentateuco Antico Testamento | Dal IV Libro dell’Antico Testamento
Creazione | Maria Federica Maestri, Francesco Pititto
Drammaturgia, imagoturgia | Francesco Pititto
Composizione, installazione, involucri | Maria Federica Maestri
Musica originale | Andrea Azzali
Interprete | Marcello Sambati
Azioni performative | Tiziana Cappella
Cura | Elena Sorbi
Comunicazione e ufficio stampa | Elisa Barbieri
Organizzazione | Ilaria Stocchi
Diffusione | Alessandro Conti
Cura tecnica | Alice Scartapacchio, Giulia Mangini, Tiziana Cappella Dino Todoverto, Linda Mahmoudi
Assistente | Giulia Mangini
Documentazione fotografica | Elisa Morabito
Produzione Lenz Fondazione_Festival Natura Dèi Teatri
Realizzato con il sostegno e la collaborazione di: MiC Ministero della Cultura, Maeci, Regione Emilia-Romagna, Comune di Parma, AUSL Parma DAI SM-DP Dipartimento Assistenziale
Visto a Parma, presso Galleria San Ludovico, sabato 3 dicembre 2022
Sotto la coltre leggera di un velo lunghissimo che ne copre il corpo sdraiato su una bassa lettiga, il biancheggiare di un essere di caligine con la pelle di carta antica e il volto scavato dei teschi del deserto. Forse la salma di un Mosè sposato alla schiuma del tempo. Siamo ricevuti nella lunga navata della chiesa sconsacrata di San Ludovico, nel centro di Parma, che gli spettatori occupano solo nella parte terminale, ammessi in piccolo gruppo, mentre lo strascico sponsale e funebre si allunga dal fondo fin quasi alla prima fila.
A interrompere la fuga prospettica dello spazio un grande tulle appeso a chiudere il fondo; dietro, nell’alveo absidale, uno schermo, e altri schermi si ripetono sulle pareti laterali. Tra tulle e schermo la scultura di un vitello/toro dorato a grandezza naturale. Ai lati del corpo disteso il vaso di due grandi conchiglie, fonte battesimale scopriremo, ricetto estremo di un’acqua di cui si perimetra l’assenza con la riscrittura che di Numeri, il quarto libro del Pentateuco, ridotto all’osso, restituisce Francesco Pititto – e l’immagine dell’osso, del teschio, di un fu vivo che è stato scavato dal tempo o dalla polvere, tornerà come una cifra candida, come estremo esito delle azioni umane, quale ne sia stata la grandezza.
Per simpatia sembrano risuonare quei versi di Saint-John Perse, nel poema Exile: “Ove furono grandi gesta di guerra già biancheggia la mascella d’asino/ E il mare intorno rulla rumore di crani sulle spiagge”. Marcelo Sambati è re, sacerdote e offerta di questa cerimonia, solo, ieratico, alle prese con frammenti di testo fossile: genealogie e numeri. Lenz, con la maestria (nomen omen) di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, sorprende sempre per la capacità di inserire in azioni scarne, tutto sommato semplici, un profluvio di riferimenti culturali e poetici, con una densità che appare solo se la si comincia a scrutare, rimanendo celata in un dettato scenico magari impervio, ma limpido per concezione e svolgimento. Notevole è sempre anche la capacità di inglobare nella drammaturgia i riferimenti storico-artistici del luogo in cui si dà l’azione. E da qui e dal contesto drammaturgico ecco l’emergere di immagini sceniche sfaccettate e potentissime (un certo monumento funebre un tempo colà ospitato, ripreso nell’immagine plastica del performer disteso che ci accoglie all’entrata; le valve; la cascata di decine di gusci di lumaca gettati a terra; la salita al toro ecc.). Immerso nella successione delle video-proiezioni (l’imagoturgia, affidata a Francesco Pititto), Sambati compie alcune semplici azioni con la vigilanza consapevole di chi attinge a una memoria che interroga il vuoti del tempo. Un trapasso, una soglia. Il fuori è nelle immagini proiettate: un paesaggio arido, quello del Po l’estate scorsa, un letto incandescente e disseccato, nel quale l’esile figura di Sambati, che lo percorre, sembra catalizzare le onde di calore. Così suonano incisivi i riferimenti all’acqua, al paradosso del corpo umano fatto d’acqua che non si può auto dissetare: “Noi fatti d’acqua non abbiamo acqua/ Solo l’acqua/ Dentro/ Di/ Noi// Non si può bere la propria acqua/ Non si può/ Bere la nostra/ Acqua”. Scansione secca di versi a volte nominali, costruiti su iterazioni quasi liturgiche, su opposizioni essenziali “dentro/fuori”; “prima/poi”; “non/solo”. Echeggiano nel vasto spazio, scanditi, con una dolcezza quasi femminea, che porta aromi da un altrove. E’ inevitabile l’uso del microfono dal momento che la musica di Andrea Azzali fluisce ininterrotta, in correnti sonore che da un lato usano campioni dell’opera Moses und Aron di Arnold Schönberg, rielaborati elettronicamente, dall’altro utilizza i numeri del testo biblico per creare frequenze sonore. Il risultato è avvolgente, segue e accompagna i pieni e i vuoti dell’azione, come una creatura viva, senziente.
Franco Acquaviva