di Giuseppe Patroni Griffi
con Leo Gullotta, Eugenio Franceschini, Paola Gassman
Regia di Fabio Grossi
Scena di Luca Filaci
Musiche di Germano Mazzocchetti
Prod. Teatro Eliseo
Milano, Teatro "Franco Parenti" dal 22 gennaio al 2 febbraio 2014
Di "Prima del silenzio", scritto da Giuseppe Patroni Griffi nel 1979, ed andato in scena l'anno successivo con la sobria, sulfurea, pacatamente crepuscolare interpretazione di Romolo Valli, serbiamo un ricordo più affettivo che critico. Per la semplice, amara ragione che fu l'ultima volta, l'ultima occasione per assistere in diretta, dalla 'religiosa' platea, alla discreta ed immensa presenza scenica di uno dei più affabili, poliedrici attori del combustibile 'secolo breve'. Romolo Valli, ad appena 55 anni, morì una sera d'inverno, scavalcando con la sua auto un dirupo dell'Appia Antica, due ore dopo l'ultima replica dello spettacolo. In una dinamica accidentale mai del tutto chiarita, ma che a noi 'piace' paragonare alla medesima 'morte felice' che inghiottì Albert Camus, spericolato in filosofia quanto al volante.
Per decenni (con la sola eccezione, se ben ricordo, di un omaggio a Valli reso da Mariano Rigillo al Nazionale di Roma) quel 'silenzio' di Romolo e Patroni Griffi sembrò incagliarsi su di un punto di non-ritorno che la qualità, le anticipative intuizioni del testo non meritavano e non meritano. Merito dunque di Leo Gullotta, anch'egli attore estroverso, polimorfico, 'capitano di ventura' di inquieta razza mediterranea, se (tramite la produzione del Teatro Eliseo), "Prima del silenzio" continua ad avanzare nella sua cadenzata tournée nazionale, di scena (da qualche giorno) al "Franco Parenti" di Milano, per la regia di Fabio Grossi, le proiezioni video a cura dello stesso regista e di Luca Scarsella, le 'intestine' musiche di Germano Mazzocchetti e la 'dinamica' scena –fissa di Luca Filaci.
Scarno ma denso di rimandi ai tumulti di un inconscio incatenato e ribelle, come Prometeo, fra invettive, minime viltà e volute ambivalenze inerenti l'indecisione auto censoria della sfera sessuale (e, in senso lato, dei veri 'oggetti del desiderio', tangibili o ideali), è il plot narrativo, anzi dialogico che si articola (con tutta la maestria ritmico- dialettica padroneggiata di Patroni Griffi) tra uno scrittore, volontariamente esclusosi in una soffitta o topaia (dalla società, dal matrimonio, dai figli, dalla vita che dà nausea). E il suo ultimo, persino 'implorato' legame con un ragazzo sprezzante e selvatico (suo allievo ed amante? E' implicito) che comunica –mediante la sua palestrata fisicità trash- tutte le 'divagazioni' sensuali e sottilmente erotiche che delineano un impari rapporto fra servo e padrone degno di Losey. E tutto il suo corollario di umiliazioni, ritrattazioni, dipendenze psicologiche e impari colluttazioni che s'infrangono su quel liso divano a centro scena, paragonabile ad una 'zattera della medusa' che ha scelto a sua rotta una specie di 'rotatoria' deriva, che è quasi nenia d'ogni male di vivere. Tra racconti di ordinaria quotidianità ove appaiono (mediante una sorta di silos roteante ed elettronico, ad effetto filmico tridimensionale) ambienti e persone (dalle onde di un simbolico maremoto alla moglie spietata accusatrice, che è l'ottima Paola Gassman nelle sembianze di ectoplasma o 'mostro' del super-ego)
L'esigenza del ragazzo- ospite, la sua ansia che si fa compulsiva (e mai stemperata da 'pietas' umana) è invece rigettare l'unico 'valore' che il poeta vorrebbe tramandare al suo prediletto : testimoniare alla maniera di Socrate, senza scritti o infingimenti, il valore della 'parola' se (junghianamente?) essa corrisponde "al mito, all'utopia o anche al semplice vissuto di un uomo". Ma l'interlocutore (velleitario e veemente, 'dannato' da beat generation nella acerba interpretazione di Eugenio Franceschini) non ha orecchie per intendere, se non soddisfare il suo ormonico, generazionale gusto (esagitato) del "carpe diem". Restando così inevasa la speranza dell'uomo di "dire" quel po' che resta dopo la scarnificazione, il raschiamento della "parola inutile, deviante, solo orpello". Resterà spazio per il ricordo, per un brandello da tramandare in tale nicchia di desolazione e abbandono? L'epilogo apre uno spiraglio di minima speranza, nell'istante in cui il (sopraggiunto) figlio dello scrittore accetterà di riconoscere in esso il padre a suo tempo ripudiato.
Cerebralità a parte, commisurabile alle ambizioni letterarie del testo (che sovrastano palesemente quelle drammaturgiche), la nuova edizione di "Prima del silenzio" (paragonata alla primogenitura di Romolo Valli) ha una sua specifica connotazione sanguigna, espressionista, irrorata di ustioni dell'anima e aggressività fisiognomiche: collocate nei momenti topici di una rappresentazione che 'ricorda con rabbia' (quasi alla maniera di Osborne) entro un disegno onirico-metafisico che non invoca redenzione, ma una sorta di 'cupio dissolvi' che detesta narcisismo, clamore, auto- martirio. A porte chiuse, e 'senza troppi pettegolezzi' (avrebbe scritto Pavese).
Angelo Pizzuto