Ideazione e regia di Pippo Delbono
Scenografia: Claudio Santerre
Disegno luci: Robert John Resteghini
Fonica: Angelo Colonna
Interpreti: Dolly Albertin, Gianluca Ballarè, Raffaelle Banchelli, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera, Ilaria Distante, Gustavo Giacosa, Simne Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia
Compagnia Pippo Delbono. Roma, Teatro Argentina (prima nazionale).
Wroclaw, Premio Europa, aprile 2009
Il Premio Europa ha visto tra i vincitori anche un italiano, Pippo Delbono. Il che ha costituito un importante riconoscimento a un sorprendente artista irregolare. Sappiamo bene che quest’ultimo aggettivo può suonare retorico, può apparire ridondante e vuoto. Essere irregolari nella contemporaneità è quasi un dovere, da quando mercato e arte si sono avvitati l’uno sull’altra e quanto si chiede all’artista è semplicemente la novità per la novità, lo smarcarsi da ogni tradizione. Che poi l’irregolarità sia un fatto unicamente di superficie e non abbia alcuna profondità esistenziale poco importa. Conta stupire, farsi notare, per vendere di più, di più e meglio: contraddizione, quest’ultima, di molta avanguardia, il voler opporsi cioè al mercato, finendo poi per esserne assorbita. Eppure, per una volta, possiamo dire che sì, che Delbono un irregolare lo è davvero. E lo è anzitutto perché non finge, né ha bisogno di sorprendere nessuno: la sua diversità è autentica e terribile, nuda e sfacciata. Delbono non fa altro che, implacabilmente, buttartela lì, con le sue viscere fumanti, sul bancone.
A Wroclaw egli ha presentato, oltre a una conferenza spettacolo sul proprio teatro, due creazioni pensate in tempi diversi, Il tempo degli assassini e Questo buio feroce. Il primo allestimento, datato 1986, ha visto sul palco, con l’autore, l’argentino Pepe Robledo, da sempre compagno di scena di Delbono. Uno spettacolo, questo Il tempo degli assassini, che – trattandosi della produzione d’esordio dell’artista – può apparire acerbo: può riuscire forse eccessiva la vena naif a cui, ormai ventitre anni fa, Delbono ricorse, alternando a squarci tragici momenti più leggeri di metateatro e perfino richiami alla rivista, con una successione di episodi rapidi e giustapposti. Buona, insomma, l’idea di contaminare terzo teatro e meta teatro; non sempre così buone, invece, le delle soluzioni adottate.
Questo buio feroce, del 2006, è uno spettacolo che guarda in tutt’altra direzione: è un lavoro spiazzante e astratto. Come il nulla. Delbono ha voluto, con Questo buio feroce, mettere in scena la propria malattia. Ogni minuto dell’allestimento è attraversato dall’angoscia della fine. Ai brani sussurrati o declamati da Delbono, con strozzato dolore o con disperazione incontenibile (su tutti il lancinante «sto scomparendo! Sto scomparendo!», che erompe con agghiacciante desolazione nel finale), fanno da controcanto lunghi e assordanti silenzi e un testo parallelo di natura figurativa: un fondale bianco e gli attori che, indossando talora abiti da carnevale rococò, talaltra maschere tribali, incedono con andatura lenta e liturgica dietro Delbono e poi, vestiti di nero, nel chiudere lo spettacolo, si frappongono, con un repentino cambio di prospettiva, funerei, tra il pubblico e l’attore. Un ribaltamento prossemico dal dirompente impatto simbolico: è il nulla che ti stringe, ti cinge, ti toglie la vista e dalla vista degli altri, nuotando nel bianco gelido delle scenografie, quando sei a un passo dallo scattare di «questo buio feroce» del titolo, che Delbono ha ricavato dal libro dello scrittore e giornalista americano Harold Brodkey, anch’egli afflitto dalla stessa incurabile malattia.
Potrà apparire un paradosso, ma Questo buio feroce ci è sembrato un atto di fede. Non però di fede cristiana, dal momento che è difficile concepire qualcosa di più ateo di questo spettacolo. Tutto sfiorisce sul palco di Questo buio feroce. I corpi degli attori-ballerini sono scarni, scavati dalla morte, dal tempo; dal punto di vista figurativo la scena è spoglia, bianca di un bianco che inghiotte tutto, spietato e cinico; le musiche sono cimiteriali e senza vita. Se un Dio c’è, non ha certo il desiderio di creare l’universo, ma è anzi teso ad annientarlo, questo universo, a consumarlo a poco a poco. La fede a cui ci riferiamo è invece un’altra: quella verso il teatro. Teatro come rito, come slancio verso l’unico sacro al quale Delbono rimanda: la sacralità della vita come sarebbe potuta essere e non è, la sacertà di una pienezza sottratta, capovolta nel suo contrario, rovesciata nel vuoto. Quel sacro al quale, essendo declinato in chiave tutta negativa, solo il simbolico può rinviare. Ed ecco il potere dell’arte. Di qui la ripresa di movenze coreografiche in perfetto stile Pina Bausch, di alcune iconografie di sapore lynchiano, di un gusto diffuso a tratti debitore – Delbono ne è stato allievo – dell’estetica barbiana.
Delbono è stato premiato come uno dei rappresentanti delle nuove realtà teatrali europee, insieme a Rodrigo García, Arpad Schilling, Guy Cassiers, François Tanguy: nomi interessanti e idee e proposte sceniche dal forte impatto spettacolare, principalmente nel caso di Tanguy. Tuttavia, in questa tredicesima edizione del festival, gli applausi più calorosi, sinceri e insistiti li ha ricevuti proprio Delbono.
Yuri Brunello
Una grande scatola bianca, una luce accecante e un uomo scheletrico che avanza carponi al centro della scena. Una voce fuori campo (quella di Delbono) che racconta di un libro incontrato in una libreria sperduta di un paese asiatico a sottolineare le analogie con la sua storia personale, un riconoscersi nell’altro a condividere il difficile percorso e l’inevitabile fine a cui nessuno può sfuggire. Si ispira all’ultima opera di Harold Brodkey, morto di Aids questo spettacolo di Pippo Delbono che ancora una volta rovescia rabbia e disperazione in palcoscenico ma anche la sua appassionata vitalità. Protagonista la morte.
Frammenti di vite segnate dalla sofferenza, uomini e donne vittime di malattie senza scampo si muovono come in un sogno abitato da incubi tra asettiche stanze ospedaliere, ritratti in una nudità imbarazzante e poi vestitissimi con sontuosi costumi d’epoca a inscenare una parata grottesca e inutile. C’è anche una Cenerentola molto truccata e due uomini in guepiere mentre seduti su una sontuosa poltrona ottocentesca si raconteranno in uno sfogo terapeutico personaggi-stereotipi affetti da una feroce normalità. La morte si autocelebra in un funerale e il corpo emaciato di Nelson Lariccia si anima di una voce toccante e si esibisce in una commovente interpretazione di “My way” e non mancano i fiori e gli applausi alla fine. Vengono in mente alcuni lavori dei Raffaello Sanzio e tuttavia con una diversità di fondo. Qui l’invenzione poetica è sempre ai limiti dell’eccesso, il rigore di una gestualità minimale (come nell’esibizione dello stesso regista in alcuni movimenti danzati) viene presto azzerata dal bisogno di enfatizzare ed ecco allora sacche di sangue che scendono dall’alto e non c’è scandalo in questa esibizione del dolore subito contraddetta dalla presenza di due Arlecchini (il vecchio caro Bobò e l’attore down Gianluca Ballarè) che in una scena di straordinaria intensità poetica giocano a nascondino muovendosi leggeri da una parte all’altra del palcoscenico. Un momento di teatro davvero alto, uno spiraglio di luce a celebrare lamore e la vita come qulla canzone di Charles Aznavour che chiude lo spettacolo e racconta di cieli lontani.
Titti Danese