regia Peter Stein
di William Shakespeare
traduzione Alessandro Serpieri
riduzione e regia Peter Stein
con Maddalena Crippa, Alessandro Averone, Gianluigi Fogacci, Paolo Graziosi, Andrea Nicolini, Graziano Piazza, Almerica Schiavo, Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino, Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni
scene Ferdinand Woegerbauer
costumi Anna Maria Heinreich
luci Roberto Innocenti
assistente alla regia Carlo Bellamio
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
Prato, Teatro Metastasio dal 21 al 29 ottobre 2017
PRATO - Cambiare tutto perché nulla cambi: il potere è un dèmone che rende ebbri gli individui e ne deforma l'anima, pertanto, a un sovrano dispotico non può che seguirne uno altrettanto dispotico. Con la sua riflessione sulle dinamiche del potere e sui meccanismi che regolano la società, William Shakespeare anticipa le amare conclusioni di Tomasi di Lampedusa attraverso un dramma storico-politico di solenne, raffinata bellezza; concepito come puro teatro di parola, il testo si articola in una sorta di disquisizione filosofica sulla malvagità umana e gli eccessi commessi in nome di una prerogativa che si presuppone illimitata, e in un aperto scontro fra questa e la società civile, società che non ha smarriti i concetti di onore, giustizia, lealtà.
A questi valori si richiamano Henry Bolingbroke e Thomas Mowbray (rispettivamente Alessandro Averone e Graziano Piazza), due Pari del Regno d'Inghilterra che si presentano al cospetto di Richard accusandosi a vicenda della morte di Thomas Woodstock, avvenuta in circostanze misteriose; in loro, palpita un profondo senso della giustizia, e vedono questo assassinio come uno sfregio alla dignità dello Stato e alla persona del sovrano; ma il modo in cui questi "amministra la giustizia" desta non pochi dubbi. Non riuscendo a impedire che i due Pari si sfidino a un duello con la lancia (l'unico mezzo che hanno per difendere il loro onore da un'accusa che entrambi ritengono falsa), con calcolato cinismo lascia loro sfogo e infine li bandisce dal territorio del regno: in maniera perpetua Mowbray, e per sei anni Bolingbroke, che è anche suo cugino. Questa curiosa decisione lascia supporre che dietro la morte di Woodstock ci sia la mano dello stesso Richard, e che lo scopo degli esili comminati sia soltanto quello di allontanare due personaggi scomodi, caratterizzati da onestà e senso dell'onore, per i quali la figura del sovrano ha ancora un carattere di ideale perfezione.
Nella realtà, Richard è un individuo assai differente, avido di potere come lo è di denaro, necessario per finanziare la sua vita dissoluta (in compagnia dei suoi tre fidati cortigiani Sir Greene, Sir Bushy e Sir Bagot) e le sue guerre di conquista. L'intuizione registica di Stein, che aumenta la causticità originale di Shakespeare, sta nell'aver affidato il ruolo del sovrano a Maddalena Crippa: perché il potere, sembra dirci Stein, ha sempre due volti, e molto spesso anche più di due, pronti ad avvicendarsi a seconda delle circostanze e a trasformare gli amici in nemici sulla base delle convenienze. Esiliato il cugino Bolingbroke, non esita, alla morte del padre John Gaunt, a incamerare le sue ricchezze per finanziare la guerra contro i ribelli irlandesi, privandolo così della legittima eredità che avrebbe ricevuto al rientro in patria. Nelle vesti di Gaunt, Paolo Graziosi interpreta, in un certo senso, l'alter ego di Richard, e ricevendolo sul suo letto di morte, gli rivolge un lungo discorso fra l'ironico e l'amareggiato, sulla finitezza della vita umana e la vanità degli orpelli del potere, il quale potere si regge soltanto sulla lealtà dei propri sudditi. Lealtà che Richard si è ormai alienata, screditando la sua figura regale con una vita dissoluta e una diffusa malversazione. Per bocca di Gaunt/Graziosi parla la coscienza civile della vecchia Inghilterra, lo scetticismo dello stesso Shakespeare circa le dinamiche del potere, e, in definitiva, sulla natura umana. Perché Henry Bolingbroke, rientrato in patria su richiesta di alcuni nobili insofferenti a Richard, non si limita a richiedere con decisione la propria eredità, ma costringerà il sovrano ad abdicare, prendendone il posto.
Senza necessità di una particolare azione scenica, lo spettacolo si sviluppa come una dissertazione filosofica: Richard, partito per la guerra in Irlanda e affidata la luogotenenza al Duca di York, è però costretto a prendere coscienza della diserzione dell'esercito, specchio della disaffezione dei sudditi. Maddalena Crippa dà vita a un'intensa figura di Richard (unica pecca, forse una dizione non pienamente convincente in alcuni accenti e nelle pause), un sovrano stretto fra l'ambizione e la consapevolezza della propria caducità in quanto essere umano, una tematica quest'ultima assai ricorrente in Shakespeare. Spogliatosi delle prerogative reali, si rivela più nudo di quanto mai avrebbe potuto pensare, ora che nessuno ha più motivo di adularlo, o comunque di temerlo. E poco lo sorprendono i quattro sicari che si recano nella sua cella nella Torre di Londra dove Bolingbroke lo ha confinato; pur reagendo con prontezza e uccidendone tre, sa di non avere scampo, ma almeno muore combattendo.
Interessante notare anche la capacità della corte di adattarsi al nuovo stato di cose: il Duca di York, nominato luogotenente, resosi tuttavia conto delle forze militari a disposizione di Bolingbroke, non esita a riconoscere la sua autorità e ad accompagnarlo da Richard per intimargli la resa e l'abdicazione; Gianluigi Fogacci interpreta il perfetto cortigiano (di cui in Italia ancora non si è persa la razza), imbelle nel pericolo, attento alla propria incolumità e a mantenere i propri privilegi. E infatti, non esiterà a denunciare al nuovo sovrano il proprio figlio, implicato in una congiura contro Bolingbroke, nel frattempo divenuto Enrico IV. La cui ebbrezza del potere lo ha trasformato, da paladino della giustizia e dell'onore del Regno d'Inghilterra, in individuo avido di denaro e di gloria, esattamente come lo era stato Richard. Alessandro Averone si cala con bravura in questo ruolo non facile, specchio della doppiezza dell'essere umano, della sua naturale predisposizione alla corruzione del potere, cancro che rende pressoché vano anche solo sperare in una società giusta. Un dramma che è puro teatro di parola, più incentrato quindi sulla psicologia che sull'azione teatrale classica: ha però alcuni momenti scenici assai intensi, come la scena del duello fra Bolingbroke e Mowbray, in lucente armatura e armati di lunga lancia, che si fronteggiano al cospetto del sovrano dopo aver pronunciate le formule rituali. Si nota, fra le pieghe di questo quadro suggestivo, la contrapposizione fra l'ipocrisia del potere (che all'onore e alla giustizia finge solo di credere), e la lealtà di due nobili con un profondo senso dello Stato. Ma il minimalismo della scenografia, costituita da pannelli neri, è comunque ravvivato dai costumi, che riproducono abbastanza fedelmente quelli tardocinquecenteschi.
Assai amaramente, è facile riconoscere in queste perverse dinamiche del potere, la meschina Italia dei nostri giorni, dove la società civile è sempre più avvilita da una classe politica senza dignità né ritegno, dove la giustizia è arbitraria e ad un arlecchino se ne sostituisce un altro.
Niccolò Lucarelli
È il Maestro Peter Stein, considerato tra i più grandi registi del teatro europeo degli anni '70, a inaugurare la stagione 2017/2018 del Teatro Metastasio di Prato. Lo fa con il debutto di Richard II, primo tra i drammi shakespeariani in cui si passa a una concezione moderna del potere e della regalità.
Siamo in Inghilterra, la scena si apre durante una discussione tra Bolingbroke e Mowbray, che si accusano reciprocamente di essere la causa della morte di Gloucester e, pertanto, si sfidano a duello. In occasione della contesa tra i due, re Riccardo II decide di esiliare entrambi, apparentemente per evitare spargimento di sangue. Bolingbroke, a seguito della morte del fedele padre e della confisca dei beni che gli spettavano di diritto, decide di opporsi agli ordini del re e pianifica una ribellione con lo scopo di prendere lui stesso il trono.
La trama, nonostante la presenza di infiniti personaggi secondari, è chiara e il regista tedesco non fa niente per renderla complicata. Tutt'altro, le parole di Shakespeare risuonano nello spazio, scandite, quasi sillabate dagli attori come se fossero cibo divino da assaporare in bocca e donare con grazia e meticolosità. I discorsi evocano sogni, le emozioni si attutiscono, per dare invece spazio alle elucubrazioni. In questo universo sospeso, emerge l'arte retorica, sebbene non di tutti gli interpreti. Degni di nota sono soprattutto Paolo Graziosi, duca di Lanchester, padre vecchio e morente; Alessandro Averone, il futuro re Enrico IV; e la straordinaria Maddalena Crippa, nei panni del protagonista maschile. Essenziale, e per questo efficace, la scenografia: è sufficiente un cambio di colore di luce e la situazione si trasforma. Magistralmente architettata, quasi geometrica, la regia: ogni movimento è studiato, ogni reazione è prevista, perfino la posizione degli arti degli attori non è casuale. Lo studio approfondito del testo è evidente, ma manca qualcosa che scompigli. Manca il sangue, il cuore che pulsava di emozioni di Der Park, manca l'autenticità e la cattiveria di Il ritorno a casa.
Finito lo spettacolo, cerco di entrare nella testa della signora che per 3 ore è stata completamente sdraiata nella sua poltrona, nel corpo del signore che ha cercato conforto nello schienale di fronte a sé accasciandovisi sopra. Noto l'energia con cui il pubblico fino a quel momento assopito applaude e mi viene in mente Flaiano e il suo "spettatore addormentato", colui al quale, nel passaggio dalla veglia al sonno, lo spettacolo si manifesta in tutta la sua purezza, privo di ogni scoria. In fondo, in quel comune stato di dormiveglia, anche a me lo spettacolo è apparso così: pulito, lineare, perfettamente comprensibile. Poi penso al teatro che Peter Brook definiva "mortale", ossia quel teatro il cui primo effetto è la noia, e mi verrebbe da rivolgere a tutti gli spettatori presenti in sala la domanda che lui stesso poneva: "questo teatro soddisfa le vostre aspettative?".
Sara Bonci