di Alberto Bassetti
liberamente ispirato a La cotogna di Istanbul di Paolo Rumiz
con Maddalena Crippa, Maximilian Nisi e con Mario Incudine e Adriano Giraldi
scene e costumi Andrea Stanisci
musiche Mario Incudine
luci Eva Bruno
regia Alessio Pizzech
produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste/Arca Azzurra
Bassano del Grappa, teatro Remondini, 26 e 27 febbraio 2024
Arzignano (Vicenza), teatro Mattarello, 29 febbraio 2024
L’amore va oltre ogni impossibilità, in questo Un sogno a Istanbul, elegante spettacolo posizionato su diversi binari paralleli scritto per il teatro da Alberto Bassetti, liberamente tratto da La cotogna di Istanbul, di Paolo Rumiz, che a mio parere si candida finora come uno dei migliori della stagione. Un amore che è plurimo seppur tra due persone, passionale con slanci che passano accanto a temi duri, opprimenti, come la guerra, la malattia, la morte. Parziale, fino al loro allontanamento, fino al ritrovo, dove si rinnova e lì, l’amore si concretizza nella più alta forma. Un amore intensissimo, come lo è la messa in scena di Alessio Pizzech che vede in scena quattro formidabili attori, ognuno nel suo ben definito ruolo, compreso quello del cantastorie, musica e racconto di spasimo, collezione di dettagli. A lui dà volto, voce e note musicali l’estro di Mario Incudine, musicista e attore che staglia principio e fine di una storia in altre storie, con canzoni musicate con dolcezza e spietatezza. Un amore simbolico e illimitato, sentito dai due protagonisti così ben distanti in apparenza. Lei, l’aspra e affascinante bosniaca Maša, zigomi forti da tartara, figlia del partigiano Mohamed e lui, Max, austriaco, ingegnere, con un padre che gli stessi partigiani ha combattuto. Siamo nell’ex Jugoslavia dove i conflitti tra i popoli delle varie etnie si contrappongono tentando di convivere, un mondo rarefatto e spezzato che prova a sopravvivere tra mille difficoltà. La guerra dei Balcani, i colpi dei mortai e delle mitragliatrici pare possano spezzare le reni a quell’amore, ma non è così. E’ un sentimento destinato a durare, finchè dura la vita, a non infrangersi nonostante tre anni di distacco per poi ritrovarsi e liberamente e del tutto viverlo. E’ essere immersi in una realtà difficile, in un tempo complicato che raffigura e riassume un continente e il suo sfacelo, le sue responsabilità. E’ un esistere quello di Maša e Max , tra tumulti dell’anima cercando la spensieratezza, in un’Europa triste e irriconoscibile, forti proprio del loro sentimento reciproco e di un simbolo dorato, la cotogna, tanto ispiratrice quanto simbolo di un continente che prova a piazzare la sua resilienza tra le pieghe e i dolori. Dove ha la sua parte decisiva quella mela cotogna, e una canzone bosniaca dedicata ad essa dedicata come al distacco di chi se ne va. Lei ha amato, prima di lui, altri uomini, come il rude Vuk ucciso in guerra, e il professore di fisica Dusko, dal quale ha avuto due figlie (Ballata per tre uomini e una donna è il sottotitolo) del libro di Rumiz). Entrambi raccontano di quella donna, e di quel nuovo uomo di lei, con grazia e poesia (nel libro la poetica è altissima, rapitrice, mentre a Bassetti va riconosciuto il lavoro di sintesi, un adeguamento che ben rende il racconto). L’incontro di Maša con Max è destino, accompagnato dalla canzone antica della cotogna d’oro, che lei gli canta e che lo incanta e si porta nel cuore anche quando Maša non c’è, prima di ritrovarla malata, e quando non è più. L’ emozione, forte, è palpabile, e il loro avvicendarsi nella storia è puro e semplice mentre fanno da sfondo Sarajevo ma anche Budapest, Vienna e Istanbul e nell’immaginario tutta la striscia est europea dove sta l’incontro tra l’Occidente e l’Oriente, terre di fascino e di orrore allo stesso tempo con i loro abitanti fieri, misteriosi. Accanto al cantastorie si muove appunto il professore di fisica Dusko, al quale Adriano Giraldi dà una bella connotazione, soprattutto nelle scene di disperazione, ricordo. Di quella chioma ramata e lunga, che poi sparisce in vena di speranza e di risoluzione della malattia che l’ha colpita. La neve è loro complice come il ballo, come il sirtaki di lei. La parete di fondo, un mosaico freddo di crepe e dolore, è quel mondo che si contrappone alla donna che è in Europa ed è l’Europa stessa nelle sue frastagliate vesti. Maddalena Crippa è una delle divine del palcoscenico e qui lo dimostra ancora, piena di fŏrtia seducente e di gestualità e recitazione preziosa, in gran simbiosi con Maximilian Nisi, altro grande interprete di personalità e struttura, che a lei si abbraccia in un duo potente, di alto professionismo. E il loro è un viaggio struggente e comune, una gialla cotogna cercata per auspicarsi il rinnovo, la vita che torna allo splendore. Ma è il bacio dell’addio che commiata, il cercare la propria fine per ritrovare lei. E un gesto d’addio, a Dio, ad Allah, le ceneri onorate al vento. Uno spettacolo di grande intensità che il pubblico premia, e ancora il teatro che vince. Cercate le date, andatelo a vedere perché merita. Francesco Bettin