di Shakespeare
Traduzione di Masolino D'Amico
Regia di Massimo Ranieri
scene di Lorenzo Cutuli, costumi di Nanà Cecchi
musiche di Ennio Morricone
Con Massimo Ranieri, Paolo Lorimer, Carla Cassola, Margherita Di Rauso, Giulio Forges Davanzati, Federica Vincenti
Roma, Teatro Brancaccio, 15, 16 novembre 2014, Politeama di Bra 15 dicembre 2014
Ogni storia, alla fin fine è una storia di sopravvivenza. Anche Riccardo III vuole riscattare il suo ego, sopravvivere mediante ambizione smodata al disamore per se stesso e le proprie fattezze. (L. Amidei)
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Considerati i tempi 'delittuosi' che si consumano a Roma e in Italia (per l'egemonia della sovranità criminale), e rapportando il tutto (per una volta) alla fantasmagoria tolkeniana del "Signore degli anelli" (citato nell'inchiesta in corso, convenzionalmente ed esplicitamente, con il titolo 'terre di mezzo'), il "Riccardo III" che Massimo Ranieri interpreta e dirige al Teatro Brancaccio (dopo il debutto estivo a Ostia Antica), pur narrando la più esemplare ed insana brama di potere ascrivibile al repertorio shakespeariano (prototipo di ogni nefandezza), non palpita nè si solleva dal profondo degli inferi in cui, eticamente, merita di ancorarsi. Non elevandosi quindi verso le 'alte sfere' cui la sua ambientazione regale dovrebbe assegnarlo; né in quella superficie 'mediana' cui ambiscono incontrarsi, da sempre, i pittoreschi, esiziali protagonisti del perenne 'romanzo criminale' che ci avviluppa ed affoga. E che "Riccardo III", a suo modo, insudicia e nobilita.
A distanza ravvicinata, la tessitura narrativa dello spettacolo ha l'impeto, il turgore che impone e tramanda la drammaturgia del Bardo, incentrandosi (in buona sostanza) sull'umana sventura di Riccardo da Gloucester, deforme di corpo e feroce nell'animo, intento a progettare il regicidio del fratello Edoardo IV, per una conquista della corona che- come è noto- diverrà la più oscura ordalia di complotti, adulterio, omicidi e falsi processi. Pervenendo, in tal modo, alla perenne 'ipostasi' che si abbina alla avidità di 'assoluto': secondo cui ogni Scalata al Trono (in tutto il suo significato ampio, allegorico ed applicabile ad ogni tempo) non è altro che premessa, senza ritorno, della perdizione umana e della solitudine incolmabile d'ogni 'apparente vincitore'. Per una supremazia da scontare, quasi dantescamente, con la pena dell'isolamento e dell' 'amaro sapore del potere'. Riccardo infatti spodesterà il trono di Britannia, ma cadrà sconfitto nella battaglia di Bosworth (proclamando la celebre battuta, o litania, "il mio regno per un cavallo" dopo quella iniziale, altrettanto inflazionata concernente l' "inverno" di chiunque è scontento).
Molto scuro, ma privo di chiaroscuri (specie di sottigliezza psicologica), sopra le righe (di una presunta rilettura 'pop'), ma ingabbiato da spartiti (registri di recitazione) del tutto monocordi, la sortita registica di Ranieri, del tutto improvvida, ambisce ad una esplicita 'citazione' di atmosfere, atteggiamenti, ruinose cadute mutuate da una memoria cinematografica celebrante il 'noir' americano anni trenta e quaranta, e con esso quel cinema francese d'autore ('realismo magico' e 'polar') che ne sono sorgente e complemento . Senza però che lo spettacolo offra occasioni, angolazioni, preziosità di stile che possano minimamente evocare paragoni non velleitari con "Scarface", "Piccolo Cesare, "La fiamma del peccato"; ovvero con l'impareggiabile tradizione dello 'spleen' transalpino che impone, giocoforza, improponibili confronti con la lezione di Renoir, Carné, Melville, Dassin (da "Porto delle nebbie" a "Notte sulla città")
Il 'rififì' del "Riccardo III" secondo Ranieri (modernizzato dalla 'svelta', sbrigativa traduzione di D'Amico e dalla 'nevrotica', esclamativa resa del protagonista, bello in viso e mimetizzato in minima cifosi alla spalla destra) si infrange invece nelle sabbie mobili del prolungamento soporifero, preceduto dalla amputazione (inspiegabile) dell'opera originaria di alcune scene basilari (un esempio: il sogno di Riccardo prima dello scontro con Richmond, che 'umanizzerebbe' un po' la sua scelleratezza di 'escluso') e snervandosi nel ripetuto gioco scenografico d'un torrione tozzo e sinistro, che si apre e si chiude in continuazione- intorno al quale ruota una sorta di porticato circolare. Al cui interno- perigeo di luce smagliante rispetto al nero tenebra che lo avvolge- va di moda un' eccentrica recitazione in bianco e nero ed 'abito da sera'. "Affinchè il male assoluto prenda corpo" (sarà...) e la prevalenza di statuine, di involontarie macchiette appesantiscano la messinscena per un tempo interminabile e fuori ordinanza.
Angelo Pizzuto