di Henrik Ibsen
Regia di Walter Pagliaro
Con Micaela Esdra, Igor Matteri, Giorgio Crisafi, Fabrizio Amicucci, Dalila Reas
Roma, Teatro Palladium dal 20 al 23 febbraio 2020
Tra Ibsen e il Dogma una messa in scena impeccabile
Helen (Esdra), la vedova del nobile Capitano Alvig sta prendendo gli ultimi accordi con il mellifluo pastore Mandes (Crisafi) per l’inaugurazione dell’orfanotrofio che porterà il nome del marito a celebrarne le virtù. In realtà lui era un debosciato e tutto il peso del consolidamento del patrimonio di famiglia e del mantenimento del buon nome del casato, nonché l’educazione del figlio Osvald –mandato appena giovinetto a Parigi per allontanarlo dalle depravazioni paterne – avevano gravato sulle sue spalle di donna forte e consapevole. Ecco tornare Osvald (Mattei) che, dopo un brillante esordio come pittore, è ora debilitato da un male profondo che gli impedisce di fare qualunque cosa. In casa Alvig lavora come cameriera Regine (Reas), figlia del bieco falegname Jakob (Amicucci), che cerca, con l’aiuto (inconsapevole?) del pastore, di farsi dare i suoi risparmi per aprire un bordello per marinai e farvela lavorare; quando Osvald la vede, se ne innamora e si riaccende alla speranza di poter, con il suo aiuto, ritrovare la forza di vivere. Lei però è figlia naturale del barone e Helen sarà travolta dall’orrore quando saprà che si è congiunta con Osvald. Tutto il castello di perbenismo che caparbiamente la madre aveva costruito crollerà miseramente e gli antichi peccati – in un incendio devastante - distruggeranno le vite di tutti.
Questa, a grandi linee, la storia che Spettri ci racconta e Pagliaro - che si conferma regista di grande respiro - le rimane saggiamente fedele: il testo di Ibsen è troppo archetipico e potente per sopportare inutili aggiornamenti. La regia – attenta alla tradizione ibseniana ma con un occhio a Strindberg e, credo, anche a Festen di Thomas Vinterberg - nel teatro Palladium di Roma (dove lo ho visto), mette gli attori nelle prime file di platea, dove piazza – minaccioso nella sua apparente irrilevanza – un attaccapanni con la divisa del Barone. Là dove lo spettacolo dà il suo massimo è nella distribuzione dei ruoli, a partire dai due protagonisti: la Esdra riesce a trasmettere la disperazione e la solitudine della sua Helen anche nei momenti di apparente levità e Igor Mattei, alle prese con uno dei ruoli più complicati e scivolosi di Ibsen (è un niente che si cada nel guignol), rende ad Osvald l’eccezionale – e, al contempo, universale – angoscia di vivere. Né sono da meno gli altri: Crisafi toglie a Mandes i toni luciferini per farne crescere, dialogo dopo dialogo, il brutale cinismo, Amicucci segna con pochi tratti il territorio di una malvagità che lo porta ad essere una sorta di deus ex-machina al contrario e, infine, la giovanissima Reas dà a Regine la triste dignità di un agnello sacrificale segnato sin dalla nascita. Insomma uno spettacolo intelligente, emozionante e colto e un bell’esempio del teatro essenziale – ma non pauperistico – che è particolarmente necessario proporre.
Antonio Ferraro